Valturcana, giugno 1950.
Il clangore delle pentole, il vociare in cucina, il profumo della polenta e del formaggio fritto provenivano dalla porta spalancata sull’estate; le cugine Àlice e Vincenzina erano sedute sul muretto al sole: era quasi mezzogiorno e l’erba matura nei prati ripidi ondeggiava all’aria tiepida che saliva dal fondovalle. Dopo aver sbrigato tutti i lavori che le rispettive madri comandavano loro, accadeva che si sedessero insieme a parlare, a guardare la vallata o le montagne intorno. Nella numerosa famiglia contadina, dove gli uomini erano lontani per lavoro, a casa rimanevano solo donne e vecchi, coi ragazzini che facevano casino e dispetti e giochi pericolosi, come cercare le armi, i proiettili e le bombe giù al torrente. Anche se venivano picchiati a dovere dalle madri, loro non s’arrendevano mai, facevano spallucce, ridevano e se la davano a gambe verso le stalle o su per i boschi. Solo verso mezzogiorno, per via della fame, si calmavano e ci si poteva ragionare.
Poi Àlice ebbe il sangue e Vincenzina al suo fianco gridò: – Sangue!
Le donne uscirono dalla casa e fecero sedere la ragazzina all’ombra, obbligandola a reclinare la testa all’indietro. Qualcuno arrivò con un secchio d’acqua fresca dalla fontana, mentre Vincenzina portò di corsa le pezzuole bianche per gli impacchi.
La faccenda del sangue al naso toccava spesso ad Àlice e ai sui fratelli: poteva essere nel bel mezzo di una corsa o quando portavano il fieno nella stalla o così, senza nessuno sforzo. All’improvviso si fermavano, portavano il dorso della mano alle narici e chi era lì vicino, e già sapeva, dava l’allarme: sangue!
Di tutte le disgrazie che capitavano e riguardavano le malattie, gli incidenti, le ferite, la morte, queste emorragie erano un piccolo evento che però fermava i lavori, le corse, perfino il pranzo; ed era un male senza dolore. Al principio le madri erano preoccupate, ma poi, col passare dei mesi se n’erano fatte una ragione: com’è venuto passerà, dicevano tra loro.

Àlice era al centro dell’attenzione, stava con la testa indietro e i suoi occhi neri e svelti erano dappertutto: osservava i fratelli, le donne e la cugina. Sua madre le faceva gli impacchi con le pezze bagnate e Vincenzina le teneva il colletto della camiciola aperto, perché non si sporcasse. Ecco, macchiare i vestiti di sangue era un bel guaio: una volta a uno dei fratelli di Àlice era successo al ritorno dalla messa e aveva sporcato la camicia bianca della festa. Quando arrivò a casa, guarito ma imbrattato, la mamma lo benedì a suon di ceffoni, perché non era stato attento.
A Vincenzina non succedeva mai d’avere sangue al naso. Le sarebbe piaciuto sentire, come raccontavano, quella specie di solletico di piuma che scendeva lento, per poi portare il dorso della mano al viso e vedere il sangue rosso e le facce stupite e preoccupate di chi aveva intorno. Quindi udire l’allarme generale ed essere come Àlice e i cugini, essere uguale a loro e, per una volta, coccolata.
Àlice, con i tamponi di bombàso infilati nelle narici, entrò in casa davanti a tutti e si sedette al lungo tavolo come una piccola regina. La polenta era ormai tiepida e il formaggio fritto s’era un po’ indurito, ma era buono uguale. Mangiarono tutti di gusto e i maschi, di nascosto, si davano delle gran pedate sotto al tavolo.


Quando, prima del tramonto, tornarono dai campi, Àlice e Vincenzina si sedettero sul muretto.
– Vorrei anch’io avere il sangue – disse Vincenzina.
– Non è una cosa che si può decidere. Viene e basta – rispose la cugina.
– Ma perché a voi sì, e a me no? Siamo cugini, mangiamo uguale, facciamo gli stessi lavori…
– È un mistero – concluse Àlice.
Tenevano le mani sotto le cosce magre e abbronzate e Àlice un po’ si sollevava facendo forza con le braccia e ondeggiando con il corpo. – Vieni con me! – disse, alzandosi all’improvviso.
Era come se avesse udito una voce e quasi trascinò Vincenzina al roseto, che stava vicino al grande rosmarino, a ridosso della casa di sassi.
– Attenta, eh? – disse e strappò due petali carnosi da una rosa rossa e li infilò prima in una narice e poi nell’altra alla cugina che stava immobile con le braccia lungo i fianchi.
Àlice si allontanò di un passo e scoppiò a ridere, Vincenzina si toccò il naso tutta contenta e corse verso casa, da sua madre; la cugina dietro, curiosa di vedere cosa sarebbe successo.

La ragazzina con i petali di rosa rossa infilati nelle narici corse in cantina e disse alla madre che aveva sangue al naso.
La donna, che stava curando il formaggio grattandolo col dorso del coltello, si voltò preoccupata e si avvicinò alla porta e alla luce; vide il rosso delle narici e fece una brutta faccia, come di chi è stanco di preoccupazioni ed è quasi vinto dalla fatica. Vincenzina stava immobile sul vano della porta: sua madre si chinò, osservò il naso ed ebbe un sussulto di sorpresa che diventò rabbia. Poi la scrollò come un sacco di foglie secche: – Che gran somara! – disse e Vincenzina si divincolò correndo verso Àlice che rideva a più non posso.
Scapparono e le loro dàlméde risuonarono gioiose sull’acciottolato tra le case.
La donna tornò alla forma di formaggio e riprese a grattare. – Ma vedi se una si deve augurare il male, che testa… – mormorò tra sé. E pensò che quelle due strighe, quando erano insieme, possedevano qualcosa, ed era come una forza. Non avevano paura dei maschi, si confidavano tra loro ed erano sempre alleate; le venne da sorridere, perché il mondo stava per cambiare, e quelle due sembravano pronte. Eccome.
Antonio Giacomo Bortoluzzi è nato nel 1965 in Alpago, Belluno, dove tuttora vive. Finalista per due volte (2008 e 2010) al premio Italo Calvino, nel 2010 ha pubblicato Cronache dalla valle, nel 2013 Vita e morte della montagna, nel 2015 Paesi alti, con cui ha vinto il premio Gambrinus-Giuseppe Mazzotti nella sezione Montagna, cultura e civiltà; i tre romanzi, pubblicati da Edizioni Biblioteca dell’Immagine, sono raccolti nell’antologia dal titolo Montagna madre, trilogia del Novecento (2022). Con Marsilio Editori ha pubblicato nel 2019 il romanzo Come si fanno le cose, da cui è stata tratta l’omonima commedia teatrale e nel 2023 Il saldatore del Vajont, con cui ha vinto il Premio Coop Alleanza 3.0 della Giuria dei lettori del Premio Latisana per il Nordest 2024; entrambi i romanzi sono ripubblicati nell’Universale Economica Feltrinelli. Docente di scrittura presso la Scuola Holden e Il Portolano scrittura autobiografica è membro accademico del Gruppo italiano scrittori di montagna (Gism). Suoi articoli sono pubblicati su riviste nazionali e sulle pagine culturali dei quotidiani del Nordest.
“Due petali di rosa rossa” è un racconto inedito di Antonio G. Bortoluzzi; l’immagine in evidenza: è un particolare della copertina del volume “Cronache dalla valle”, di Antonio G. Bortoluzzi, Ed. Biblioteca dell’Immagine, 2010

