Delusione a Cividale - Il viaggio in Friuli di Giovanni Comisso

Delusione a Cividale – Il viaggio in Friuli di Giovanni Comisso

E’ sopravvissuto a Cividale, nel suo centro storico, qualcosa come una casa del fascio che termina, all’ultimo piano, in un arco di blocchi di roccia. Con tutte le catastrofi avvenute in questo limite dell’Italia, quell’arco incongruente è rimasto intatto a sfidare gli uomini e il tempo.

Mi dispiace di doverlo dire, ma lo dico per carità di patria, perché spero che si possa porre un riparo estremo: le nostre belle città conseguenti a tutta una storia e a un’arte millenaria stanno diventando ridicole. A frenare la valanga degli ottusi che ne fanno scempi non servono né le leggi, né la campagna di stampa, né le Sopraintendenze ai Monumenti, né le Commissioni Edilizie, né i Santi protettori. Mentre la nostra bilancia commerciale con l’Estero pende sempre di più a sfavore nostro e si cerca di colmare il dislivello con le entrate del turismo, si arriverà al punto che queste nostre città non interesseranno più gli stranieri.

Cividale – Palazzo della Questura, ex Casa del Fascio (da turismofvg.it)

Desideravo visitare Cividale, la Cividale romana e longobarda e posso esattamente dire che non l’ho trovata, che è stata cancellata dalla terra friulana.

Già arrivando da Udine in macchina mi avvenne di sorpassarla senza accorgermene, perché la strada le passa rasente senza che alcuna tabella indichi la deviazione per la città. C’è una fatalità per le tabelle su questa strada, al tempo della vecchia guerra, dopo la battaglia di Caporetto i soldati cantavano ironici:

Da Cividale a Udine
gli austriaci avanzano
e trovano dei cartelli
e sopra vi era scritto:
Alt! Taglio dei capelli”

Questi cartelli, allora, imponevano ai soldati che venivano dal fronte il taglio igienico dei capelli, ed era per loro una specie di degradazione, di menomazione della bellezza. Il Comando Supremo si preoccupava della lunghezza dei capelli dei soldati, invece di preparare le strade per un eventuale arretramento delle nostre artiglierie dalla valle dell’Isonzo, sui monti che limitano la pianura friulana. Così rotto il fronte coi gas asfissianti, non fu possibile ricostruirlo che sul Piave, e tutte le artiglierie andarono perdute. Quella canzone era una tremenda critica a quel disastroso Comando Supremo. Ricantavo quella canzone andando verso Cividale, proprio col senso che l’Italia sia sempre nell’imminenza di una battaglia di Caporetto.

Avevo di Cividale un ricordo caotico del tempo di guerra, di quella guerra, quando vi arrivai in una sera estiva, prima di Caporetto, destinato all’alta valle dell’Isonzo. La città era un grande centro di smistamento per il fronte dell’Isonzo, da Plezzo a Gorizia. Non era possibile avere da dormire, difficile trovare da mangiare, solo il vino scorreva nelle bettole. Sul ciottolato dei vicoli in discesa verso il Natisone risonavano i passi ferrati dei soldati che erravano nel buio con un’ansia famelica di cibo e di donne. Ricordavo grandi sottopassaggi ad antiche case, dove soldati francesi e italiani si contendevano delle donne uscite da un’osteria vicina. Era una Cividale da Medioevo, sovrumana e tenebrosa.

Adesso è caotica ugualmente. Nelle due piazze del centro, come si fosse di Carnevale, vi avevano lasciato mettere giostre, altalene, lizze per autoscontri, tiri al bersaglio che scatenavano un frastuono di musiche, di spari, di sibili creando tutta un’atmosfera assordante che invano le divine campane del Duomo tentavano di penetrare dall’alto della torre. E ancora soldati, come in quel giorno lontano, migliaia di soldati, agglomerati in questa piccola città così da superarne gli abitanti. La città era saturata di soldati che l’offuscavano come una nebbia, che le toglievano il suo aspetto naturale tramutandola in una caserma. Possibile che la strategia e la politica estera ci debba costringere a tutta questa messa in scena militare in ognuna delle nostre piccole e stupende città, sia a pochi chilometri dal fronte, come Cividale, o a migliaia di chilometri, come Orvieto. Sembra che l’Italia sia la sola potenza armata di Europa. Girando per la Germania a pochi chilometri dalla linea rossa, non si vede un soldato nelle città tedesche.

Tra questa marea di uniformi, due statue di bronzo dall’alto dei loro piedistalli, quella di GiCividale statua di Adelaide Ristori (Rollroboter, Wiki)ulio Cesare in una piazza e quella di Adelaide Ristori in un’altra sembravano attendere, a quell’assordo da fiera, di venirsi reciprocamente incontro per iniziare una danza. Le guerre e le rivoluzioni sembrano avere un destino beffardo nelle loro distruzioni. In un bombardamento aereo si può essere certi che prima di un punto strategico verranno infallibilmente colpiti gli asili d’infanzia e gli ospedali. E una rivoluzione cancellerà le lapidi che documentano innegabili opere utili compiute dal regime abbattuto, come un ponte o una bonifica, mentre lascerà intatta certa orrenda architettura voluta da quel regime per le sue sedi politiche. E’ appunto sopravvissuta in Cividale, nel suo centro storico, qualcosa come una casa del fascio, fatta di mattoni visibili e di nuda roccia, che termina all’ultimo piano in un arco di blocchi di roccia, isolato contro il cielo. Di certo quell’architetto, della grande schiera degli architetti romani di quel tempo, saputo che Cividale era stata fondata da Giulio Cesare, pensò che qualche tocco della Roma imperiale ci voleva e vi mise quell’arco come per ricordare quelli finali del Colosseo.

Orbene con tutte le catastrofi avvenute in questo limite dell’Italia, quell’arco incongruente è rimasto intatto a sfidare gli uomini e il tempo.

Devo essere guardingo a non lasciarmi prendere dal mio malumore ai primi disinganni subito arrivando, per non travolgere speciosamente il mio giudizio su Cividale, ma purtroppo proseguirono crescendo. Un esperto friulano, che ha addirittura scrito una guida per le migliori e tipiche trattorie della regione, me ne aveva indicato una, dove detto che mi aveva mandato lui, mi sarei trovato benissimo. Non sono un esigente buongustaio, mi basta che le pietanze abbiano un sapore e non risultino come se si masticasse cera o carta. Purtroppo in quella trattoria appena arrivato mi toccò mangiare un pasticcio di lasagne insipido come di cera e un pezzo di carne come di legno. Ancora quell’amico esperto mi aveva detto di andare da un tale il quale certamente mi avrebbe fatto da guida rivelandomi tutte le bellezze della Cividale romana e longobarda.

La strada dove costui abitava era lunga, non arrivavo mai e tra di me ad alta voce mi chiesi dove fosse quella casa. Allora mi sentii rispondere da una finestra socchiusa che la casa che cercavo era quella col poggiolo, dopo l’osteria. Vidi dietro a quelle imposte un uomo che fumando la pipa si divertiva a spiare il passaggio per la strada, che era in prevalenza di soldati.

Camminai ancora e giunto alla casa stavo incerto, perché non vi era il nome sulla porta. Allora da un’altra finestra socchiusa, sentii una voce di donna chiedermi di chi cercavo. Quella era appunto la casa dell’uomo che avrebbe dovuto farmi da guida. Suonai e da una finestra si sporse una testa di donna. Dissi chi ero, chi mi mandava e cosa desideravo. Mi rispose di aspettare un momento, credevo scendesse per aprirmi la porta e invece riapparsa alla finestra mi disse che chi cercavo stava mangiando e sarebbe venuto alle tre e mezzo al museo.

Tutto questo parlare dalla finestra mi diede l’impressione che Cividale vivesse in un latente allarme. Forse la vicinanza con la frontiera, forse la presenza di tutti quei soldati, intimidivano le famiglie. Certo sembrava che la peste avesse invaso quella terra, e che il forestiero forse guardato con sospetto dall’alto delle finestre.

Il Natisone a Cividale (foto di Welleschik, Wikimedia Commons)

Avevo tempo e decisi intanto di ricercare quella parte della vecchia città che scende verso il Natisone, per rievocarmi quella notte lontana di guerra. Quei vicoli erano deserti con le loro case antiche e col ciottolato come allora, sul quale passava leggero qualche gatto. Dietro alle imposte verdi di una finestra mi accorsi che un prete mi stava guardando. Ritrovai il sottopassaggio, ma non era grande come mi risultava nel ricordo. Avviene sempre così: e non vi tumultuavano i soldati per contendersi le donne. Nella vicina osteria vi erano due donne in ambigua attesa, ma nessuno le disputava. I soldati erano tutti nelle piazze attorno alle giostre dalle quali fino là sotto giungevano le cadenze del can can del Moulin Rouge diffuse da un altoparlante. Nell’osteria via era una vecchia, lo sguardo ceruleo e il volto allungato facevano pensare che era stata bella da giovane; dal suo pallore, dalle sue rughe e dai pochi capelli grigi e male ravviati riemergeva uno di quei volti di giovani friulane che ricordavo dalla lontana guerra.

Le rivolsi la parola come l’avessi conosciuta allora, rimpiangendo la Cividale di quegli anni. Il suo sguardo si fece languido nel sorriso, anch’ella ricordava quel tempo, quei tumulti in quella strada nella notte, e la ritirata fuggendo agli austriaci che avanzavano, e la fame patita e la paura, ma erano bei tempi, perché si aveva vent’anni. Le chiesi se avrei potuto dormire bene in una locanda vista poco prima, amorevole come fosse un suo amico mi disse di non andarvi, perché vi erano le cimici, obiettai che si era d’inverno e le cimici sono in letargo, e sorrise ancora.

Non avevo cercato quel sorriso venendoci Cividale, ma capii fin da quel momento che sarebbe stato la cosa più bella che vi avrei trovato.

Vicino vi era il tempietto longobardo, la cappella palatina della regina Amalasunta. Di certo quando Cividale fu capitale dei Longobardi, il palazzo reale doveva essere dove è ora un convento delle Orsoline, cioè sulla posizione più bella e più sicura, sopra gli elevati spalti di roccia, a picco sul Natisone limpido e verdino. Chi ha le chiavi del tempietto è una bella ragazza con le labbra tinte di rosso, mi accompagna e si tiene lontana da me come in sospetto. Le chiedo se sa dirmi chi rappresentino alcune figure ad altorilievo sulla parete di fondo, sopra a una magnifica scultura in pietra della vite simbolica. Ed ella con tutta naturalezza mi risponde che sembra rappresentino le quattro nazioni: l’Italia, L’Austria, l’Ungheria e la Jugoslavia. La guardo stupito e sono costretto a contraddirle che la Jugoslavia non esisteva al tempo dei Longobardi. La sua ingenuità e somma e non insisto, ma intanto era sopraggiunta la sorella maggiore venuta come di rinforzo, come per tutelarla.

Museo di Cividale (foto di Anna Bonetto, Wikimedia Commons)

Erano quasi le tre e mezza e dovevo essere al museo. Nella piazza l’assordo era altissimo, tutte le giostre turbinavano. Tra esse vi era un’altalena con delle gabbie entro alle quali coppie di soldati, simili a scimmie si accanivano piegandosi sulle ginocchia per spingersi in alto. Quando uscirono da quelle gabbie apparvero sudati, arrossati e imbizzarriti nello sguardo. Ma da una gabbia uscirono anche due ragazzine folli e inebriate da quel giuoco e se n’andarono spavalde tra la folla dei soldati. Erano le sole che non sembravano intimidite da quell’assedio maschile, anzi pareva lo volessero provocare. Ma i soldati nella loro animalità intontita non se n’accorgevano. Andai al museo, impugnai la maniglia del campanello e nel tirare uscì il lungo ferro come se avessi sguainato una spada.

Venne il custode, chiesi della persona che doveva farmi da guida, mi rispose aveva avvertito non poteva venire e ripassassi il giorno dopo. Il mio malumore stava per traboccare, più che ridicola ora Cividale mi si rivelava ostile. Soggiunsi che almeno egli avrebbe potuto illustrarmi il museo, era spiacente ma si trovava alle prese con un gruppo di maestre triestine e non poteva abbandonarle. D’altra parte disse che ogni oggetto ha il cartellino con la spiegazione. Pazientai e cominciai a girare le sale. Mi interessò un salvadenaro in pietra trovato in un tempio di Ercole per raccogliere le elemosine, che non avevo mai visto altrove e neanche pensavo fosse mai esistito nei templi pagani. Poi giunsi alle teche delle monete, la luce era sfavorevolissima, da ogni punto vedevo riflessa sul vetro la lampada della luce. Tra le monete greche, romane e bizantine, non mi riusciva a trovare quelle longobarde. Passando da una teca all’altra dopo avere visto una moneta d’oro con l’effige di Alessandro il Grande, credetti di sognare scoprendo la serie delle monete di Vittorio Emanuele III, quelle stesse che fino all’altro giorno giravano anche tra le nostre dita. Tutto il ridicolo di una maniaca cultura provinciale sfavillò su quelle teche.

Museo di Cividale – Interni (foto di Studio371, Wikimedia Commons)

Sapevo che in quel museo avrei potuto vedere certi rarissimi messali miniati, pensai fossero esposti in altre teche, ma qui vi trovai invece la collezione di certi manualetti popolari friulani con le profezie dell’annata usciti un secolo addietro. Non mi era più possibile trovare il custode e passai in un’altra sala dove vi erano collezioni di gioielli longobardi trovati nelle tombe e fibbie per cinture. Gli uni e gli altri di curiosa fattura barbarica erano adorni di smalti incastrati nel metallo, smalti cupi come quell’epoca lontana, cupi come la luce che penetra nelle chiese gotiche attraverso i vetri istoriati.

Ritrovai il custode sulla porta e mi invitò a mettere la mia firma sul registro, lo accontentai, ma accortosi che stavo aggiungendo altre parole dettate dal mio malumore, mi disse che se dovevo fare qualche protesta vi era un libro apposito. In questo libro lessi che uno studioso venuto espressamente dalla Germania per vedere i famosi messali miniati d’Aquileia, ne era rimasto deluso, perché erano stati inviati altrove a una mostra d’arte medioevale.

Pensavo che il malumore di quello studioso tedesco doveva essere stato assai maggiore del mio. Almeno io avevo ritrovato in Cividale il sorriso di una donna dei miei vent’anni ed era già una miniatura preziosa.

Giovanni Comisso

da Il Mondo del 30 novembre 1954.

Immagine in evidenza: Cividale del Friuli – Veduta (foto di Mattana, Wikimedia Commons)

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