Ha allestito produzioni nei migliori teatri d’opera d’Italia e d’Europa, raccogliendo entusiastici consensi ma anche qualche contestazione. È Damiano Michieletto, il regista lirico più apprezzato degli ultimi anni. Padovano di nascita e trevigiano di adozione – quando il lavoro non lo chiama in giro per il mondo – si è formato alla Scuola d’arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano. I suoi allestimenti escono spesso dal solco della tradizione.
Quanto influisce la carica innovativa nella sua carriera?
Francamente, il mio primo pensiero non è quello di voler essere innovativo, ma di cercare di fare qualcosa che mi piaccia. Solo così posso sperare che anche gli altri traggano piacere dal mio lavoro e che questo possa essere apprezzato dal pubblico.
Non si può pensare di incontrare il gusto di tutti e quindi non bisogna correre il rischio di voler ottenere un risultato del genere. Quando lavoro, ho un unico motto: “cerca di essere te stesso e di metterti al servizio di un racconto”. Che deve essere emozionante, avvincente.
Soprattutto, deve gratificare chi è uscito di casa per andare a teatro, ha pagato un biglietto, ha vinto la pigrizia di stare davanti alla TV. Nemmeno il cinema attrae più come una volta, ora che può entrare in salotto semplicemente pigiando un tasto del telecomando.
Cosa può dirci del suo metodo di lavoro?
Non sono un professore e non ho grandi teorie in proposito. Il mio lavoro non è mai nato in modo programmatico e quando mi accosto a un’opera cerco di non dare nulla per scontato e definitivo. Cerco di guardarla come se dovesse essere rappresentata per la prima volta. Perché in un’opera quello che conta sono solo la musica e le parole che gli interpreti dicono sul palcoscenico. Tutto il resto può e deve cambiare. Mi viene da fare un paragone con Venezia e i cartelli con scritto “Ferrovia”, “Rialto”, “Piazza San Marco”: indicano un percorso che la stragrande maggioranza dei turisti interpreta come l’unico possibile. In realtà per raggiungere quelle destinazioni ci sono tanti altri modi, che possono rivelare scorci inaspettati, prospettive inusuali.
Questo è il compito del regista: accompagnare il pubblico a destinazione attraverso percorsi che non restituiscono la solita cartolina della città. Pensando invece alla montagna, mi viene un’altra metafora: quella dell’alpinista che apre una nuova via. Si accolla i rischi, pianta i suoi chiodi e arriva alla vetta. Da quel giorno, presumibilmente, la nuova via porterà il suo nome.
A proposito di musica e parole, quali le differenze nella regia tra opera lirica e prosa?
Il teatro di prosa concede al regista una libertà che nell’opera lirica è decisamente più limitata e quindi il lavoro risulta maggiormente complesso. Musica e parole devono seguire un ritmo e un tempo precisi.
Nel teatro d’opera si parla, infatti, di “recitar cantando”.
Sono due verbi, uno all’infinto e l’altro al gerundio, che sottintendono un lavoro fatto in contemporanea. Verdi, ad esempio, aveva una grande consapevolezza della parola scenica e quando scriveva le sue opere si riferiva agli artisti chiamandoli i “signori attori”.
Qual è il compito del teatro oggi?
Quello di sempre. Quello che aveva sin dall’Antica Grecia quando la città si riuniva per vedere rappresentata la propria storia.
Teatro e opera devono raccontare la vita e non hanno nessun’altra ispirazione se non la vita. È la vita stessa che crea il teatro.
Era così anche ai tempi Shakespeare. Cambiavano solo il periodo e la città, ma il fine era il medesimo. Stessa cosa per il grande repertorio del melodramma italiano dell’Ottocento di Verdi e Donizetti: raccontavano la vita della gente. Per questo sono stati sempre così popolari: non era di certo teatro solo per l’élite o l’aristocrazia. Mio nonno, che era falegname, cantava le arie di Verdi.
E il compito del regista?
Rendere i personaggi il più possibile umani, efficaci. Deve far sì che abbiano una verità. Per me è importante che gli spettacoli parlino a tutti. E quindi è fondamentale che siano fatti come la torte a strati, in cui il primo sia leggibile a chiunque, a iniziare dal bambino per finire con l’adulto che non sa nulla di opera, e via via si possano cogliere gli strati successivi.
Obiettivo di un regista è far sì che gli spettatori si lascino affascinare dal racconto.
Va da sé che maggiori sono gli strati, maggiori sono le possibilità di arrivare a più spettatori. Particolare attenzione, inoltre, va data ai finali, soprattutto in opere della durata di quattro ore come il Guglielmo Tell.
A proposito di pubblico: cosa cambia, ad esempio, da quello di Venezia a quello di Londra?
Il pubblico non è una categoria e ogni città ha il proprio. Quello di Venezia è diverso da quello di Milano, Parigi, Berlino o Roma. Ed è esattamente per questo motivo che credo di dover lavorare bene a prescindere dal pubblico. Inoltre, i teatri dell’opera chiedono progetti con anni di anticipo rispetto al cartellone.
Oggi si sta già lavorando per il 2022. Il progetto dove essere consegnato con un anno di anticipo rispetto alla stagione in cui verrà messo in scena e può capitare che vengano chieste delle modifiche.
In fin dei conti si tratta di un enorme business internazionale: le grandi opere sono conosciute in tutto il mondo e ai teatri non resta che differenziarsi attraverso le regie. È un po’ quello che accade con gli orologi da polso: tutti segnano l’ora, eppure esistono modelli per ogni gusto e ogni tasca.
Cantanti e direttori d’orchestra: come si rapporta un regista con questi protagonisti?
Personalmente ho avuto a che fare con cantanti e direttori di età e talenti diversi. È sbagliato credere che professionisti relativamente giovani possano interpretare meglio le idee di un regista che propone una prospettiva mai sperimentata prima.
Proprio chi vanta una carriera più lunga sa adeguarsi meglio alle nuove richieste.
Esperienza e talento lo rendono più consapevole dei propri mezzi e più pronto a seguire le indicazioni del regista. Gli artisti giovani o meno dotati solitamente sono più rigidi e meno sicuri.
Nel 2016 ha inaugurato la stagione della Fenice con “Aquagranda” e ha letteralmente allagato il palcoscenico del teatro.
Ricorrevano i cinquant’anni dalla tragica alluvione del ’66. Era doveroso ricordare quel dramma. La musica composta da Filippo Perocco si è ispirata all’acqua e ai suoi suoni.
Ho riflettuto a lungo su “Acqua Granda”, il romanzo di Roberto Bianchin in cui si narra la storia di un vecchio pescatore di Pellestrina che, malgrado il pericolo imminente, decide di restare in casa assieme al figlio.
Ho capito che il protagonista non era l’uomo, ma l’acqua, e come tale doveva riempire la scena.
Doveva essere rappresentata la potenza della natura. Così è stato: grazie a una serie di dispositivi idraulici ho fatto piovere a teatro.