Questa storia parla di ragazzi di montagna, ragazze di pianura, radicchio di Treviso e, soprattutto, di rispetto. È accaduta negli anni Trenta del Novecento.
Mio nonno allora aveva poco più di vent’anni e lavorava con i fratelli e i compagni della Valturcana in Pian Cansiglio e nella foresta. Avevano fatto i vaccari, poi i boscaioli e quindi i trasportatori di legname. L’altopiano del Cansiglio, tra Veneto e Friuli, all’incrocio delle province di Belluno, Treviso, Udine (ora Pordenone) era luogo di lavoro per molte persone dell’Alpago e dei paesi delle provincie limitrofe. Mio nonno e i suoi partivano di buon’ora dalla Valturcana, quand’erano ragazzi andavano a piedi e poi, più grandi, con un carro da lavoro trainato da cavalli. Alle volte si fermavano a dormire nei ricoveri, nelle stalle, nelle baracche della piana del Cansiglio o della Valmenera. Nei villaggi di Pian Osteria, Campon, Vallorch, Canaie c’erano i cimbri, che lì risiedevano stabilmente e svolgevano le loro attività, alcune riguardavano la lavorazione del legno di faggio da cui ricavavano scàtoi, i contenitori di forma circolare dove adagiare il formaggio appena tolto dal caldaio. Nei mesi estivi c’erano altre piccole comunità occasionali: erano ragazzi e ragazze della Bassa che passavano l’estate lassù a pascolare le vacche, vendere ceste di vimini e piccoli utensili di legno. Mio nonno e i suoi fecero amicizia con queste trevigiane, in particolare con due sorelle che erano in montagna giovanissime e accompagnate da un fratello maggiore. Le ragazze erano simpatiche, estrose, e i giovanotti della Valturcana facevano a gara per essere premurosi: portavano il salame misto vacca e maiale com’è nella tradizione bellunese, le noci, l’acqua di fonte, così scarsa nell’altopiano carsico. A mio nonno e ai suoi fratelli non mancava il vigore fisico e avevano voglia di lavorare per uscire dalla miseria degli anni Venti e della Grande Guerra, volevano dimenticare la tubercolosi che si era portata via due di loro e aveva lasciato cadere sulla famiglia la povertà a causa dei debiti contratti nel vano tentativo di curare i congiunti. E quindi il lavoro, anche nella foresta, non era più un semplice sostentamento era desiderio di riscatto.
Passò l’estate sull’altopiano e venne la fine d’agosto, tempo di lasciare la Valmenera: chi fece ritorno in Alpago, chi scese oltre il passo della Crosetta verso la Bassa.
Le ragazze tornate a casa raccontarono di quei giovani infaticabili e malandrini, sempre pieni di doppi sensi nel parlare, ma che tenevano le mani a posto, e di come erano state aiutate per tutta l’estate, che, insomma, erano diventati amici. E allora quel padre disse che sì, potevano invitarli a prendere i fighi, i sugosi fichi maturati al sole della pianura, come avevano promesso ai montanari le ragazze prima di salutarli.
I quattro giovani della Valturcana partirono che era ancora buio, costeggiarono il lago di Santa Croce e scesero il Fadalto con la loro unica ricchezza, un calesse portato da una cavalla e due cassette di pón canelà, le saporite mele della valle. Un po’ fecero anche la strada a piedi per non stancare la bestia. Arrivarono nella casa colonica e era tutto ricco e florido e abbondante: tanto prato, tante viti, tanto fieno, tanta stalla, tante vacche, tanti fighi. Tanta dènte, gente, erano i mezzadri che lavoravano la campagna, ma parevano signori. I giovani vennero ben accolti e furono accompagnati a raccogliere i fichi, e poi bevvero dei gran bicchieri di vino bianco, tutti insieme, ricordando i tempi dell’altopiano. Quando le campane chiamarono mezzogiorno, il vecchio padrone di casa li invitò a fermarsi per mangiare un boccone in famiglia. Loro dissero che no, era ora di andare, la strada, il tempo, grazie… ma si trovarono seduti alla grande tavolata a mangiare la cosa più buona del mondo: minestra di fagioli su un letto di radicchio condito. E ci si tuffarono, tutti, tranne mio nonno che non aveva mai mangiato radicchio in vita sua. Non era un ragazzo di tante pretese ma non sopportava i radìci, nemmeno quelli di tarassaco che raccolti in primavera sui pendii assolati della Valturcana e poi conditi con sale, pepe, lardo e aceto erano la prelibatezza della stagione. Sottovoce chiese al compare di fianco se prendeva anche i suoi, ma l’amico aveva occhi solo per una delle ragazze, che era piccola di statura e tutta sorrisi. E allora lui mangiò la minestra e appena vedeva spuntare una foglia di radicchio, piano piano, senza farsi vedere, la sfilava dalla fondina, la teneva nel pugno e se la metteva in tasca. Una dure, tre, cinque, finché tutte le foglie di radicchio finirono dentro le tasche dei pantaloni. Dopo il caffè d’orzo corretto con la grappa andarono nella vigna per ammirare le viti e l’uva come ci si reca al santuario. Mio nonno approfittò per gettare qua e là le foglie di radicchio, senza che nessuno se ne accorgesse.
Poi tornarono nell’aia, si diedero appuntamento per l’estate successiva in Valmenera, salutarono e partirono con il carro, la cavalla e i fighi. Il compare di mio nonno, che a quel tempo ci si prometteva d’essere compari molto prima di trovare la morosa, disse che la prossima estate, in Cansiglio, avrebbe chiesto a quella ragazza briosa di fidanzarsi con lui. Gli altri commentarono che era meglio se durante l’inverno le avesse scritto qualche lettera, o almeno delle cartoline, in modo che qualcun altro non si facesse avanti, ché i trevisàni son svelti con le femmine. Mio nonno arrivò a casa con i pantaloni delle braghe irrimediabilmente macchiati d’unto e quando sua madre lo vide lo prese a male parole. Gli disse che era stato proprio un turulù, uno sprovveduto.
Quando mi raccontò questa storia, scuotendo il capo e un po’ ridendo di sé, ragionò sulla situazione, sui tempi magri d’allora, e mi disse: come fai a dire a chi ti invita a mangiare e ti offre la cosa più buona e preziosa che possiede che a te non piace? Che ti gratta in gola? E mi disse che fece quella cosa stupida di mettersi il radicchio in tasca per rispetto di quella gente, di quella casa, di quella terra. E che i pantaloni rimasero macchiati di lardo per sempre e non li poté più portare nei giorni di festa.
Mi piace questa piccola storia contadina, mi piace questo rispetto giovanile e il mantener fede alla parola data, da un anno all’altro.
Ah, dimenticavo, il compare di mio nonno sposò davvero quella ragazza della Bassa e ebbero una lunga vita insieme.
Antonio G. Bortoluzzi
Antonio G. Bortoluzzi è nato nel 1965 in Alpago, Belluno, dove tutt’ora vive e lavora. Nel 2019 ha pubblicato il romanzo dal titolo Come si fanno le cose (Marsilio Editori) e nel volume collettivo “Lettere da Nordest” (Helvetia Editrice) il saggio Un’invenzione spettacolare: la montagna come solitudine. Ha pubblicato nel 2015 il romanzo Paesi alti (Ed. Biblioteca dell’Immagine) con cui ha vinto nel 2017 il Premio Gambrinus – Giuseppe Mazzotti XXXV edizione nella sezione Montagna, cultura e civiltà. Con lo stesso romanzo è stato finalista al Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo 2016 e al premio letterario del CAI Leggimontagna 2015. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo Vita e morte della montagna vincitore del premio Dolomiti Awards 2016 Miglior libro sulla montagna del Belluno Film Festival. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo per racconti Cronache dalla valle. Finalista e quindi segnalato dalla giuria del Premio Italo Calvino nel 2008 e 2010 è membro accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna (GISM).
Immagine in evidenza: Valturcana, anni Trenta, archivio familiare Antonio G. Bortoluzzi