Per un artista, in questa Italia distratta, tutto è necessario fuori che l’umiltà e la fiduciosa speranza di essere subito considerato nel proprio merito
L’altra sera, alcuni giovani pittori della mia città mi invitarono a una grande cena. Erano in vero un poco troppi, per una piccola città e per potere tutti aspirare alla gloria. Erano anche tristi, perché, fatta una mostra collettiva, non solo non avevano venduto alcun quadro, ma nessun critico si era occupato di loro. Mi chiesero come avrebbero dovuto fare per segnalarsi, per imporsi in qualche modo. Li guardai in volto uno per uno mentre si stava a tavola e nonostante la loro giovinezza ne provai un senso di pena. Allora cominciai a parlare.
Raccontai come lo scultore Arturo Martini viveva in Treviso nei suoi giovani anni. Egli, che era destinato a diventare il maggiore scultore d’Italia, allora, per non morire di fame era costretto a fare carri mascherati, di Carnevale, e manifesti elettorali nel periodo delle elezioni, poi con la sua scaltrezza era riescito a convincere un buon uomo danaroso che un giorno egli sarebbe diventato con la sua arte grande e ricco e lo avrebbe ricompensato se gli avesse passato un piccolo sussidio giornaliero. Quando giunse a questa meta, ritornò un giorno a Treviso e volle rivedere il suo mecenate. Eravamo assieme e quel buon uomo che lo aveva aiutato così alla cieca, quasi subendo il suo sguardo ipnotico, era tanto felice di averlo aiutato nei tempi duri che non volle altro compenso che stare con Martini, mentre a tutti ricordava che egli solo aveva avuto fiducia nella sua arte. Martini poi aveva saputo fino da giovane con le sue stravaganze nel vestire, col suo parlare enfatico, con tutto il suo comportarsi segnalarsi nella pacata città, come una mosca nel latte. Mentre quei giovani artisti sembravano pecorelle smarrite, in attesa di una apparizione miracolosa, che scendesse proprio dal cielo per guidarle ai verdi pascoli.
Quando mi accorsi che tra di loro ve n’era uno che avevo conosciuto da tempo e che individuavo tra i molti, più che per la sua pittura per avere anni addietro rubato un autocarro di cioccolata. E lo additai a tutti dicendo che bisognava arrivare a questo per imporsi. Allora mentre mi accorgevo che il ladro-pittore arrossiva, come preso da un rimorso, volli insistere per spiegare meglio la situazione. Dovevano convincersi che l’Italia è un paese dove si fa l’arte, ma non è detto che sia anche amata. Che gli artisti da quando non hanno più principi e papi credenti che l’arte abbia da servire all’immortalità del loro nome, si trovano come pesci fuori di acqua. Che la borghesia subentrata ai principi e ai papi non ha alcun gusto artistico e se compera o fa eseguire un’opera d’arte, lo fa solo a occhi bendati suggerita da mercanti o da esperti, oggi rarissimi e quasi sempre in così malafede da sostenere ugualmente il bello e il brutto. Per imporsi in questo labirinto bisogna fare insieme con l’arte stravaganze e imprese eccezionali. Ricordai i grandi esempi.
Ricordai che D’Annunzio mi diceva che quando andò da Pescara a Roma, che era una città dormiente, volendo imporsi tra la società dominante si era adattato a fare il cronista mondano decantando i gioielli falsi di quelle nobili donne e avvolgendosi di scandali amorosi, altrimenti non si sarebbero accorti di lui, neanche se avesse scritto poesie più belle di Petrarca. Ricordai che del pittore Gino Rossi ci si ricorda ancora solo perché è morto pazzo. Che Arturo Tosi, che era un grande pittore, avendo vissuto fino alla tarda vecchiaia senza alcuno scandalo ed essendo morto naturalmente, già lo si va dimenticando e il valore dei suoi quadri si abbassa vergognosamente, come la temperatura quando si spegne il termo. Che i Macchiaioli, tutti grandi pittori, per avere vissuto miseri, infelici e normalizzati nella vita, pure essendo stato cercato di rivalutarli, sono oggi estranei alla considerazione che meritano e da un degno mercato. Che l’entusiasmo per la pittura di De Pisis non nasce da una giusta valutazione, ma solo perché egli seppe diventare di moda per le sue follìe e palesi stravaganze. Oggi, ancora dopo la sua morte, si esclama: bellissimo, davanti a qualche suo quadro che egli butterebbe sul fuoco e si comperano indifferentemente sia i falsi che i veri.
Per un artista, in questa Italia distratta, confusionaria, priva di ogni gusto per l’arte, tutto è necessario fuori che l’umiltà e la fiduciosa speranza di essere subito considerato nel proprio merito. Son necessari la stravaganza, l’acrobatismo, lo scandalo, la pazzia, è necessario persino che vengano falsificati i propri quadri, o rubati o incendiati, se non si vuole essere morti e dimenticati, ancora vivendo.
Quando finii di parlare, uno dei giovani pittori che stava seduto accanto a me, subito mi chiese con un filo di voce, se allora era proprio necessario per ottenere notorietà rubare un autocarro di cioccolata. «Sì, gli risposi calcando la voce, un autocarro, ma con rimorchio».
Giovanni Comisso
da “Il Giorno” del 25 dicembre 1956.
Immagine in evidenza: Gino Rossi – Douarnenez, 1912 – dettaglio (foto di Sailko, Wikimedia Commons)