Ancora una protagonista femminile per l’ultimo romanzo di Mariapia Veladiano, ma questa volta si tratta di una donna unica eppure universale: Maria, la madre di Gesù. È “Lei” a raccontare se stessa. E il lettore, abituato all’iconografia che l’ha rappresentata per secoli, può immedesimarsi nel suo vissuto, vedere attraverso i suoi occhi e comprenderne gioie e patimenti.
Come è nata l’idea di dare voce a una figura che ha caratterizzato così profondamente la nostra cultura e che nei Vangeli ha parlato solo sei volte?
Maria è una figura di una pienezza umana meravigliosa. E’ una ragazzina che accoglie un figlio inatteso e impensato in un ambiente in cui questo significava emarginazione e morte. Per chi crede è il punto della storia in cui Dio prende dimora nel mondo che ha creato e vive la vita degli uomini.
Maria è una ragazzina che impara a diventare madre e che sperimenta fino allo spasimo l’esperienza universale di dover imparare a conoscere suo figlio e soprattutto di dover imparare a lasciarlo andare verso un destino che lui sentiva necessario. Una necessità che tanti genitori intuiscono ma non sanno accogliere.
Maria l’ho incontrata da grande, studiando teologia e soprattutto leggendo le opere d’arte. Mi stupivo di come fosse diversa dall’immagine tutto sommato per me davvero poco affascinante con cui mi veniva presentata dal catechismo: la donna del sì, la sottomissione a Dio, l’eletta unica fra le donne.
In un senso lato è tutto vero ma l’operazione teologica di averla divinizzata presto ha permesso che in fondo la sua grandezza di donna non sfiorasse le altre donne che anzi si son trovate tutte confinate nell’ombra di una normalità sottomessa. Invece la straordinaria normalità e insieme intensità con cui Maria ha dovuto vivere la sua vicenda di donna e madre è sorella della nostra normalità. Giovanissima, impreparata, esposta a ogni vento minaccioso. Dal vento della chiacchiera micidiale: quante ragazze sono state e sono esposte a questo vento senza confini di tempo e di luogo. Al vento feroce della legge: ancora oggi quante leggi pretendono di regolamentare la nascita di un figlio!
Ancora oggi ci sono luoghi in cui nascere femmine è quasi un dramma, avere più di un figlio è un dramma, avere un figlio fuori dal matrimonio è un dramma.
“Si sa quanto è lungo il tempo della preoccupazione. Appena meno lungo del tempo del dolore”: i monologhi di Maria, giovane ma consapevole madre, sono pervasi di paure e dubbi relativi al suo Bambino. La sua è anche una storia di moderna maternità?
Certo. La maternità si accompagna alla gioia e alla paura. E’ un atto di fiducia. Un salto nella fiducia. Per tutti è così. Accolgo la vita che viene perché penso che ci sia un mondo che può accoglierla, nessuno mette al mondo un figlio per il dolore. Però si sa che il dolore può colpire lui come ogni altro figlio. Maria ha paura come tutte le madri e i padri perché non ha un’illuminazione che l’accompagni, che le dia un sapere superiore. Il Vangelo racconta che lei custodisce il suo non sapere. Raccoglie dai giorni accanto al figlio bambino e poi ragazzo indizi di qualcosa che non sa.
Poi ha le parole dell’angelo, ma nel romanzo come nel Vangelo sono parole che danno inizio alla storia. L’angelo non la accompagna in tutti i suoi dubbi.
Con le parole dell’angelo tutto inizia ma poi lei è sola. Lo dice nel romanzo. E poi le parole di benedizione che leggiamo nell’Annunciazione stanno immediatamente accanto all’abisso del male più innominabile. La nascita di Gesù e la strage degli innocenti sono inseparabili. Nasce il salvatore annunciato dalle Scritture ma un male terribile oscura l’evento per sempre. In che modo le due cose stanno insieme?
Lei lo dice: “Dall’eternità in cui non sapevo ancora di abitare ho sciolto il mio eterno chiedere scusa alle madri per i loro bambini perduti, io che lo avevo ancora, il Bambino”.
Maria ripete spesso che i figli non sono delle madri e che non potranno difenderli dal male. Pensiamo a tutte le madri che oggi piangono i figli uccisi negli attentati e nei conflitti.
E’ così. Bisogna ricordarci però l’un l’altro e sempre che moltissimo del male che ci circonda è provocato da noi. E’ un immenso atto di fiducia nella vita generare ma bisogna generare alla vita e alla responsabilità verso il mondo e quindi generare al bene, alla generosità, alla mitezza, alla cultura che aiuta a non essere servi delle ideologie di sopraffazione. Non è di moda, ma anche questo dobbiamo ripetercelo.
Nell’ultimo Angelus del 2017, Papa Francesco ha sottolineato che “tutti i genitori sono custodi della vita del figlio, non proprietari, e devono aiutarlo a crescere, a maturare”. Maria ha anche imparato a lasciare il proprio figlio.
Maria lo dice nel romanzo: “La vita è servire la vita, servire e amare la vita e accogliere la gioia che viene e il tempo in cui gioire è impossibile. Tutto si consegna e diventa salvezza”.
Essere genitori è imparare che il figlio è sempre altro da noi, che i suoi sogni non sono i nostri sogni, fare arretrare i nostri sogni per lasciare posto ai suoi, esserci eppure sempre lasciare andare perché l’alternativa è tradire il salto nella fiducia che ogni nascita invoca
E’ difficilissimo essere genitori oggi, si confonde la protezione che vogliamo dare ai figli con la pianificazione del loro futuro. Si vorrebbe blindare la loro vita per non farli soffrire. La sofferenza più grande è il non essere visti come persone autonome e piene di capacità.
I chiodi, strumento di supplizio, sono temuti da Maria che non vuole nemmeno sentire nominare, malgrado servano a Giuseppe nel suo lavoro di falegname.
Sì. E’ quel misterioso sentire che accompagna la vita di tanti genitori. Un pre-sentire che viene dal mistero di un legame che nasce in un punto della storia e si allunga all’eternità. Come se nell’amore potessimo andare avanti e indietro nel tempo e quindi misteriosamente sapere. Maria, come molte madri, misteriosamente sente che i chiodi sono male per suo figlio.
Nel capitolo intitolato “Pietà” c’è uno dei monologhi più lunghi del romanzo: Maria accoglie tra le braccia il corpo del figlio. È la parola che si fa scultura?
E’ il momento del dolore assoluto. Il figlio muore e lei non sa che risorge. E’ la notte nerissima.
Maria nei tre giorni che seguono la morte conosce il dolore di tutte le madri che sopravvivono al figlio. E’ il precipitare senza fine. Dentro una storia d’amore assoluto quale è quella che si vive con un figlio.
E da dentro questa storia lei il terzo giorno “sa” che il figlio ancora c’è. Il nostro nascere per la vita eterna lei lo apprende dall’avere vissuto e accolto una storia d’amore assoluta. Lei non assiste alla resurrezione. Non c’è fra le donne al sepolcro. Non ha bisogno di vedere perché sapere è più di vedere.
In questo Maria somiglia a tanti genitori che, pur nello strazio della perdita, sentono che il figlio è vivo e nel suo nome fanno meraviglie. Associazioni di aiuto, case di solidarietà, vere meraviglie del bene.
Giuseppe, sposo anziano, trova nel romanzo una sua dignità, un suo ruolo. Può essere paragonato ai padri di oggi?
Giuseppe è padre per grazia. Maria in una pagina lo dice: “Gesù ha avuto due padri, per grazia”. Nel romanzo è molto presente, al contrario di quel che capita nel Vangelo.
In verità è perché lui c’è che Maria può dire “eccomi”.
La disponibilità e la promessa di una ragazzina con un bimbo non avrebbero avuto futuro se Giuseppe non fosse stato con lei a dire sì. Non fisicamente, l’Annunciazione è a Maria, ma dentro il sì di Maria c’era il sì di Giuseppe. Nell’amore questo capita. Uno può disporre della libertà dell’altro e dire di sì anche per l’altro, perché sa che lui capirà. Quante volte lo facciamo, anche per decisioni importanti. E quindi Giuseppe attraversa il romanzo perché di fatto è stato accanto al figlio.
La sua paternità si chiama responsabilità. Nessun tipo di possesso. Il legame di amore e di responsabilità è molto più potente del legame di sangue.
Giuseppe è padre in un modo che parla ai padri di oggi, così confusi con i figli, così impegnati a disegnare il loro futuro che vogliono sicuro, di successo, di un successo che spesso loro, i padri, hanno in mente. Giuseppe sta accanto al figlio, come Maria. Non capiscono tutto. E chi avrebbe potuto? Ma ci sono fino in fondo. Quanto all’età, non c’è nulla nel Vangelo che lo identifichi come una persona anziana. E’ una narrazione nata successivamente, probabilmente a protezione della verginità di Maria. Quando la teologia si agita per proteggere il disegno di Dio c’è da stare attenti. Però è vero che, pur senza volerlo, in un punto del romanzo lo penso non giovane. Non so perché. Nei miei romanzi tutti i genitori sono avanti in età. E anche questo non so dire perché capiti. Nel caso di Giuseppe ho forse voluto sottolineare il senso di responsabilità, che è più facile quando si è grandi in età.