Ricorre quest’anno il settantesimo anniversario dalla scomparsa di Gino Rossi (Venezia, 6 giugno 1884 – Treviso, 16 dicembre 1947).
Lo ricordiamo oggi con il commovente Commiato di Giovanni Comisso, proponendovi il primo di una serie di articoli che dedicheremo al grande pittore trevigiano.
“Alla maniera degli uccelli emigratori che prima di iniziare il grande volo, ricercano i compagni per superare con sicurezza l’impresa, anche Gino Rossi ricercò i suoi compagni.
Ebbe accanto a sé una schiera ansiosa di novità come di altre terre: Martini, Moggioli, Garbari, Valeri, Semeghini, Scopinich, qualcuno si disperse nel grande volo, qualcuno cadde stroncato alle ali, altri superarono lo spazio. Rossi si protese trasumanato verso l’alto, verso il sole che vedeva come unico punto di riferimento, mentre la terra dispariva e si confuse nel cielo.
Questa schiera voleva dare la sua impronta all’arte del secolo che nasceva e rinnovarla.
Il gusto pittorico prevalente in quel tempo era invecchiato da sentimentalismi artificiosi. La società borghese non sopportava di sforzarsi ad accettare idee nuove e più profonde interpretazioni della vita. Nelle Accademie si insegnava a dipingere secondo le conclusioni degli antichi, le rivoluzioni erano aborrite, tra accademie e borghesia vi era un’alleanza difensiva e rassicurante. Rossi e i suoi compagni presentivano nuovi tempi, in loro urgeva la necessità di conformare una nuova parola.
Nell’isola beata di Burano, che era come una loro Tebaide, questi anacoreti dell’arte si radunavano per rendersi più forti colle opere, perché sapevano che solo con opere avrebbero potuto vincere le forze che tenevano col loro gusto il potere nell’ arte.
Le prime mostre a Palazzo Pesaro, organizzate da Nino Barbantini, il solo critico che aveva coraggiosamente condiviso la loro ansia, volevano provocare e travolgere il gusto di quel tempo. In quelle sale affrontavano con la discussione e con la forza gli incauti commentatori. La città par lava di scandalo, di offesa alla tradizione, la tranquillità borghese venne turbata come da un complotto anarchico, come per lo scoppio di una bomba su Canal Grande.
Ma qualcuno aveva saputo che questi nuovi artisti esistevano e altri si unirono a loro. Ritornava la schiera alla loro isola sospesa tra la madreperla della laguna e il cielo ventilato dal mare, i figli dei pescatori si tuffavano al nuoto ed emergevano dalle acque come delfini, le donne vestivano a colori vivaci come per continui giorni di festa e le case stesse avevano le pareti dipinte come le vele.
La rottura col vecchio mondo era stata proclamata dalle mostre di Palazzo Pesaro e Rossi con più impegnata certezza ritraeva quegli abitanti integri e primordiali coll’impeto della sua poesia tumultuante.
Giorni felici questi, ma fugacissimi per lui: sfolgorava di giovinezza. la fronte inebbriata di speranze, la cravatta annodata in disordine sul largo petto, il passo violento come per lasciare orme dovunque. L’aria era carica di avvenire, i sogni immensi. voleva vivere della sua arte, lottare strenuamente come per aprirle un varco tra resistenti muraglie. Da Monaco, da Parigi venivano gli strepitosi annunci che altre schiere avevano lottato e superato le vecchie leggi ed egli guardava a questi orizzonti come alle attese aurore.
Andò a Parigi e dopo avere visto direttamente le nuove tendenze, si appassionò allo studio della pittura orientale e comprese che oltre ad essere pittura di impressione era disegno entro cui fu colato il colore. Ne trasse per il momento una sua esauriente esperienza che volle subito mettere alla prova, la città smisurata lo soffocava e ricercò in Bretagna un paese di Pescatori che potesse ricreargli la sublime Burano.
Altri giorni sereni e fuggenti si susseguirono interrotti dal richiamo dell’Italia dove sentiva essere per lui più valido imporre la sua arte. Da questo ritorno. mentre era ancora nell’erompere della sua giovinezza, incomincia la sua persecuzione.
L’amore, che dopo l’arte era stato il suo più forte entusiasmo, si era concluso in un atroce tradimento. La donna amata con potenza d’uomo e di artista gli era sfuggita per sempre.
Gli amici lo ricordano a Burano, schiantato. invano tentare di riprendere la vita di un tempo, immobile accanto al fuoco per riscaldarsi le mani gelate e non si accorgeva che la brace gliele scottava. Un’altra donna ebbe cura di lui con la pietà come per un infermo. Ricercato altro luogo dove rinascere, visse tra le colline di Asolo, moventisi in una continua costruzione e gli ridiedero come una eco il suo canto; ma poco dopo il mondo decrepito nello smarrimento della parola precipitava in una guerra. Generoso verso tutte le idee nuove, verso tutti i fatti nuovi, ancora giovanile.
Rossi si illuse che quella guerra dovesse essere il principio di una rinnovazione: divenne soldato convinto di combattere anche per difendere e affermare il diritto delle sue opere.
Conobbe la logorante trincea. l’orrore dell’assalto, fatto prigioniero subì una prigionia lunga, tormentosa, deridente: egli che era pittore aveva l’incarico di pennellare sulle croci dei soldati morti i loro nomi.
Ritornò ombra di se stesso. La guerra non aveva rinnovato il mondo.
Un altro suo entusiasmo era stato deluso. Si ritrasse presso la madre che viveva in una casa nascosta tra le pendici del Montello. La solitudine era straziante in un’momento in cui aveva bisogno di qualcuno per riallacciarsi all’arte. La vecchia ferita dell’amore tradito si riaperse, la miseria si abbatté su di lui ossessionante. Attorno aveva la terra che digradava boscosa verso il Piave ampio di ghiaie distese, i suoi occhi guardavano, ma egli diffidava. Non poteva credere di illudersi ancora, la sua poesia era stata distrutta dal dolore. Si era fatto venditore girovago da un villaggio all’altro, il cielo si era oscurato per lui, dentro di lui erano state crocefisse tutte le sue speranze.
Camminava solo, parlava solo logoro e stravolto. la gente si insospettiva di lui, fu arrestato. Non comprendeva perché gli uomini gli si accanissero contro. Tutto fu silenzio in lui, la follia lo prese inesorabile.
Trasferito il suo corpo da un ospizio all’altro, confuso in stanzoni comuni con altri offuscati, raccoglieva carte colorate e le disponeva tra le pagine di una rivista che teneva sempre sotto il braccio; erano i suoi colori preferiti. Si consunse, distrusse l’aspetto animoso, invecchiò rapidamente, miserabile tra miserabili, per morire alla vigilia del massimo riconoscimento delle sue opere. Queste opere, oggi, dopo quasi quarant’anni di lotta da esse stesse sostenuta, sono entrate nelle sale della Biennale dove il gusto del tempo in cui erano state create non le voleva accogliere.
Questa la triste vita di Gino Rossi; brevemente felice, lungamente tormentata e maledetta. Nuova, tra l’idillio e l’angoscia la sua poesia sulla trama dell’uomo e della terra, ma impedita a farsi quella decisiva e travolgente parola che è ancora attesa nell’arte.
Gli anni giovanili furono sprecati nella dura lotta pretesa per l’assenza di una critica in Italia, pronta e vigilante a convalidare nuove ventate a condannare le false. La guerra, il tradimento nell’amore, la miseria gli ostacolarono e dispersero la completa creazione.
E la follia giunse come un giro di chiave, perché la porta della grande rivelazione non venisse aperta. L’amorosa poesia di Rossi per la terra e per gli uomini avrebbe dato sicuramente l’attesa parola; egli era il più indicato fra tanti, perché aveva più di tutti atrocemente sofferto, ma non era stato ancora raggiunto il limite estremo della perdizione umana.
Il mondo doveva proseguire in smarrimenti più profondi, ricadere in guerre più crudeli. in nuove distruzioni, in oppressioni e in orrori più vasti, protraendo la speranza di rinnovare lo spirito per riconfermare l’uomo intero e non la belva o la pietra. Rossi aveva tutte le possibilità sensibili, ma era stabilito che le aspre esperienze di dolore invece di sublimarlo dovevano perderlo, perché l’umanità doveva soffrire ancora, quanto lui aveva sofferto. Siamo giunti in questi anni al massimo della sofferenza umana e l’arte deve procedere decisa per plasmare gli schemi del rinnovamento.
Siamo, oggi come quaranta anni addietro, con la stessa ansia di tempi nuovi che rendeva impazienti Rossi e i suoi compagni in soste nella Burano celeste e non vi può essere dilazione ancora, altrimenti sarebbe inutile vivere, se vivere dovesse risultare un continuo smarrirsi.”
Giovanni Comisso, 1949
Il Commiato è parte del libro di Benno Geiger “Gino Rossi Pittore” edizioni “Le tre Venezie”