«L’ansito interno dei fatti», il respiro naturale, profondo, il soffio vitale è ciò che Giovanni Comisso cerca instancabilmente nella sua opera letteraria, contrapponendolo all’immobilità della fotografia. Il compito che lo scrittore trevigiano assegna alla sua prosa è superare la fissità dell’istante, andare oltre, restare nella memoria del lettore diventandone personale emozione e insegnamento.
Lo afferma l’autore stesso nell’articolo Il poeta fotografo, pubblicato il 12 ottobre 1940 sul settimanale «Oggi»; lo confermano i sei racconti da lui elencati in quell’articolo e raccolti nel piccolo, prezioso volume omonimo appena edito dall’associazione alba pratalia, a cura di Giuseppe Sandrini dell’Università di Verona.
Profumate, bianchissime pagine spesse riportano in superficie narrazioni brevi che altrimenti avrebbero rischiato un immeritato oblio.
I sei racconti, che vengono da movimentati trascorsi editoriali, bastano forse a tracciare le linee principali della figura di Comisso: Chioggia, meta preferita e immancabile, luogo di rinascita spirituale dopo le dolorose e traumatiche delusioni sentimentali; il paesaggio del Veneto che lo culla, lo forma, lo accoglie sempre e un po’ lo ossessiona; la campagna come occupazione, impegno, ma anche gioioso rifugio dal male del mondo (vedi Giorno di nozze e Sera di nozze); avventura, voglia di evasione e libertà.
Per riuscire a trattenere questo impalpabile stato dell’essere Comisso, che dedica il suo ingegno letterario alla collaborazione con diversi e numerosi giornali, è disposto a modellare le proprie idee sui credo delle testate per le quali scrive, a non esplicitare le proprie tendenze, a rinnegare e abbandonare l’antifascista «Solaria» legandosi maggiormente al fascista, benché anticonformista, Leo Longanesi, per salvaguardare sé stesso e la possibilità di continuare a scrivere per quotidiani e periodici.
Proprio a questo amico raffinato e spregiudicato e alla sua rivista «L’Italiano» Comisso concede qualche suo libro da pubblicare a puntate, si impegna in un lavoro quasi redazionale, si dedica a stesura e impaginazione di articoli e racconti. Gli argomenti spaziano dalla letteratura sovietica ai palazzi delle poste, dalle descrizioni dei disegni di Longanesi ai commenti negativi su macchine e grandi aziende.
Il numero de «L’Italiano» di gennaio-febbraio 1933 è dedicato a cinema e fotografia. Tra le pagine compare anche un articolo di Comisso nel quale si legge:
«Nelle fotografie il tragico riesce più impressionante e l’osceno più eccitante che se visti realmente. Questo perché i loro elementi essenziali sono fissati e imperano sui sensi continuamente».
L’articolo del 1940, Il poeta fotografo, è dedicato a Gustave Flaubert. Secondo Comisso questo «scrittore magistrale», che disapprova e detesta la fotografia, compone però il suo romanzo con un «verismo a volte tipicamente fotografico». A sostegno della sua tesi, Comisso riporta esempi tratti da Madame Bovary: pagine nelle quali Flaubert delinea caratteri e avvenimenti girandone una sorta di pellicola.
«Anche questo oggi non si potrebbe più fare. Sarebbe un trarre ispirazione dal cinematografo. Flaubert recava in sé questa anticipazione, che si è specificata ad essere espressa con un altro mezzo».
Comisso continua l’articolo dichiarando l’intenzione e la necessità di superare lo stile ottocentesco, conferendo alla sua prosa lo «strapotere» di oltrepassare la maschera alla quale l’occhio meccanico è costretto a fermarsi.
Nonostante questo l’autore trevigiano non manca di confrontarsi col «valore dell’attimo», improvvisandosi fotografo egli stesso. Scatta per Longanesi, scatta durante il viaggio in Oriente, scatta in Libia quando vi si reca nel 1939 per la «Gazzetta del Popolo». Soddisfazione personale, ulteriore competenza gradita al suo io narcisista, che tenta in ogni modo di mostrare e vendere ai giornali con i suoi pezzi, ad un prezzo aumentato.
Ma Comisso non è un semplice commerciante della sua arte: è un perfezionista che allega agli articoli le fotografie soprattutto per trasmettere ai lettori le immagini delle realtà che il suo occhio incontra.
Malgrado sia il prototipo dell’autore guidato da convenienza e istinto, sente «l’interiore esigenza» di ripresentare al pubblico varianti dei suoi scritti fino a raggiungere la forma definitiva. In contraddizione col suo «volersi costantemente “qui ed ora”» (per citare Andrea Zanzotto),permesso, sostenuto, e agevolato dal mezzo fotografico, è ai suoi testi immancabilmente rimaneggiati, tagliati, ampliati, corretti, rivalutati, riciclati, ripresi che Comisso lascia in custodia la limpidezza del suo mare, scoprendosi «cronista della vitalità».
Lo slancio esistenziale è costante nella sua vita privata che non accetta la vecchiaia e per aggirarla si accompagna a giovani amici; nella mitizzazione della guerra come esperienza emozionante; nell’intraprendere viaggi giornalistici continuando la sua ambiziosa scalata verso l’auspicato successo.
Lo stesso slancio è presente anche nei sei articoli de Il poeta fotografo, manifestandosi in Una calle di Chioggia, piena di voci, rumori, attività, suoni, con quello che Sandrini definisce «desiderio di comporre quasi uno spartito»; nelle folli risanate dall’aspetto angelicato di La sagra delle indemoniate; nella precarietà di «una foglia di ippocastano già indorata dall’autunno»; in tradizione popolare, valori familiari, conosciuto e rassicurante paesaggio materno; in coraggio, sfida, viaggio al galoppo tanto determinato e irrefrenabile da riflettersi in cielo (vedi il sesto e ultimo racconto del libro, Cavalli a Verona).
In questi testi esperienza giornalistica e vocazione di scrittore si fondono, come si legge nella postfazione, nella «rivendicazione della forza e insieme del compito della letteratura». Per raccontare e raccontarsi Comisso descrive meticolosamente, cerca con pazienza, commenta criticamente, annoda fili della trama, aggiunge segnalibri di attenzione e curiosità. Può decidere di rimanere protetto all’ombra dell’apparenza o vantare una maliziosa ambiguità, può avvalersi della gloria passata o ribellarsi, gridare come le indemoniate o lasciare che a esistere siano solo le mani narranti e senza ingombri delle suore di Operazioni chirurgiche; ma il suo stile aspira all’immortalità.
Pur senza le idee che, come annota egli stesso in una pagina di diario, gli procurerebbero «il plauso incondizionato dei critici, la celebrità tra il grande pubblico», Comisso non vuole essere dimenticato.
Per onorare questo fine e trasmettere il suo patrimonio interiore, si appella tanto alla rappresentazione della realtà, alla memoria dello sguardo, quanto a quello che Eugenio Montale definisce «genuino temperamento poetico», alla personale ispirazione creativa e istintiva. Consegna a contemporanei e posteri un ricco repertorio caotico di immagini rare e parole inestimabili destinate a scolorire, mutare, confondersi nella polvere, infragilirsi nei giorni, ma sicuramente restare riconoscibili, intenzionali inni alla vita.
Valentina Gonella
Valentina Gonella è nata nel 1993 in Arzignano, provincia di Vicenza, dove tutt’ora vive. Laureata in Lettere, nel dicembre 2017 ha conseguito la Laurea Magistrale in Editoria e Giornalismo presso l’Università degli Studi di Verona con la tesi “Comisso giornalista: gli anni ’30”.
Scrive per il blog di riflessioni e racconti tantipensieri.it.