di Nicola De Cilia
“Sento dentro di me cose che non furono mai scritte e il mio solo dolore è che ancora non ò le parole per dirle”.
Quando Giovanni Comisso scrive questa lettera ai genitori ha venticinque anni.
E l’ottobre del 1920, da quasi un anno è a Fiume con d’Annunzio e i suoi legionari, tira una brutta aria e in pochi mesi tutto sarà finito.
Nel periodo successivo, però, Comisso troverà quelle parole di cui lamentava l’assenza per raccontare la grande avventura del conflitto mondiale, la folle e ebbra stagione dell’occupazione di Fiume, le sue scorribande tra Istria e Dalmazia a bordo di un veliero chioggiotto, la Parigi di Filippo De Pisis, e poi Cina, Giappone, Africa, Russia visitate per i principali giornali italiani.
Una dimensione nomade che, in un’altra lettera del 1916 ai genitori, aveva tratteggiato chiaramente: “Bisogna che vi adattiate, sarà una cosa dura, ma è così, a lasciarmi la gabbia aperta, perché io voglio vivere come voglio. Fuori di ogni legame civile e legislativo. Girerò, girerò molto. Sarò un battello ubriaco di golfi e di mari… ”
Non a caso, Goffredo Parise, nel raccontare l’amico e mentore, scrisse: “Ha viaggiato tutto il mondo riportando sempre felicità ch’egli ha superbamente trasmessa nei suoi libri e nei suoi racconti. Le sue pagine fremono sempre di primavera ed estate, come non esistessero le altre stagioni morte o morenti, poiché anche queste egli fa rivivere donando loro la luce e il colore dell’estate.”
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(fonte: Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia)