Cinesi al giuoco, in giudizio e in carcere. Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

Sciangai, aprile

A bordo del piroscafo che mi portava in Cina vi erano due giovani commercianti cinesi che ritornavano dalla Francia. Osservati per un periodo di quaranta giorni, nel breve spazio che funzionava quasi da lente d’ingrandimento, ci s’accorse come predominassero in loro una grande timidezza e una calorosa passione a ogni giuoco. Dell’interferenza della prima con l’anima cinese si cercherà di parlare con dettaglio in seguito, a soggiorno ultimato.

L’anima cinese è propriamente quella d’un bambino. Ed è anche per questo che il giuoco ne occupa la massima parte.

Anzi si può dire che se per i mestieri borghesi questa razza devia sempre nell’illecito, non riuscendo ad assumere uno spirito professionale, per il giuoco ci tiene con tutto l’estro a difendere un proprio fortissimo punto d’onore. Fremevano, arrossivano in volto se toccava loro di perdere a domino o di rimanere gli ultimi a golf. Certi giuochi sportivi europei sono avidamente sentiti e, — mi assicurava un educatore ottimista, — con lo scopo di farsi forti in gara con le nostre razze che li umiliano al raffronto fisico.

Ardore sportivo

Nelle partite di calcio tra Cinesi e marinai inglesi o squadre di altri stranieri, cui ho assistito, si vedeva come nel muto accordo mettessero tutto un immane sforzo per vincere. Negli intermezzi gli europei se ne stavano al centro del campo spartanamente in piedi, indifferenti al riposo, solo intenti a concertare il piano d’attacco; i Cinesi, invece, rotti dalla fatica, s’accasciavano gli uni addosso agli altri, abbandonandosi al ristoro del benigni massaggi.

A costo di apparire ridicoli volevano raccogliere le proprie forze al massimo per riescine a vincere.

Non vi è scuola, collegio o università cinese che non abbia il suo campo di calcio. Anche nei piccoli paesi se ne trovano. Gli studenti non fanno che giocare. Ad ogni mia visita a questi luoghi di studio, in ore diverse, le aule e i laboratori erano scarsamente frequentati a tutto vantaggio del calcio e delle sale col tennis da tavola.

Davanti al mio albergo c’è una scuola cinese. Ogni qualvolta mi affaccio alla finestra, sotto al portico dell’edificio, vedo sempre questi grembiuloni blu che ondeggiano nel giuoco.

Per le strade dei quartieri popolari, i ragazzi giocano al diabolo o a rimpiattino e anche ad un gioco che s’usa pure da noi in certe regioni. A colpi di bastone fanno scattare un pezzo di legno, messo in bilico su di un rialzo, gareggiando a chi riesce nel lanciarlo più vicino ad un cerchio tracciato sul terreno. Il domino, la morra e le carte, certe carte piccole e oblunghe, tengono occupati gli uomini nei caffè, nei banchetti e durante i viaggi, tanto in treno quanto per mare.

Ma quello che sovranamente li accanisce è il «magiong». Questo è gioco nazionale e ad esso negli alberghi dedicano notti intere con tale fracasso da non lasciar dormire i malcapitati vicini di stanza. L’Europa ha portato qui altre possibilità d’impiego di questa loro fluente passionalità a gareggiare nell’imprevisto. Innestato sulle corse di cavalli e di cani il totalizzatore, i primi e più numerosi a puntare sono stati i Cinesi. Per le corse dei cani v’è un ambiente elegantissimo frequentato dai ricchi, e un altro popolare allo Stadio. Le corse si svolgono di notte all’aperto. Allo Stadio la folla è essenzialmente pittoresca. Vi sono giocatori che possono essere facchini, garzoni di negozio, impiegati, figli di famiglia, commercianti e donnette di media categoria.

L’immensa, appassionata, avida folla cinese segue la vicenda della corsa e appena da essa sale un mormorio in minore. Vedo quelli vicini impallidire nell’ansia, le palpebre alzate più che sia loro possibile, ma non gridare, come ci si sentirebbe di fare appena il nostro favorito venisse a perdere terreno. Pochi secondi, la corsa è finita. I segnali luminosi appaiono; tutti corrono a vedere i dividendi e a intascare, tremanti nelle scarne dita, gli attesi guadagni.

Il «ring» dell’oro

Ma in Kiukiang road, all’ombra dei tetri palazzi delle banche, si compie altro giuoco. Il locale si chiama Gold Bar. E’ qui che giornalmente si stabilisce il valore dell’oro per la piazza di Sciangai. Pressioni massime, pressioni minime, come per le variazioni atmosferiche. Siamo in periodo ciclonico fortissimo. La moneta corrente in Cina è l’argento: viene importato principalmente dall’America o dall’India. Sul Bund, a volte lo si vede scaricare a mattoni, nudo e rilucente; come una merce qualsiasi buttato sui carri, poi lo portano alle fonderie dove gli viene impressa una vaga forma di piccola conchiglia, a un peso esatto, assumendo il valore del cosidetto tel. Unità monetaria corrente solo tra banca e banca; e alla sera d’ogni giorno, chiusi gli sportelli e fatti i conti, partono dalle sacrestie i facchini a due a due con un greve peso che curva sulle loro spalle una grossa canna di bambù: è la differenza in tels nei conti correnti che viene spianata.

Attualmente l’argento è deprezzatissimo. Il ritorno alla base oro in India ha dato un tracollo fortissimo; d’altra parte si continua a importarne da tutte le parti sovraccaricando il mercato. Tuttavia con tale svalutazione della moneta locale non sono affatto aumentate le esportazioni. I prezzi dei prodotti indigeni sono saliti a quote altissime, oltre che per livellarsi sul valore oro, per le difficoltà dei trasporti ferroviari, adibiti in massima a uso militare, per la pericolosità dello comunicazioni acquee e terrestri battute dai briganti, e per le forti tassazioni dei vari Governi delle province attraverso le quali passa la merce, dovendo quelli pur pensare in qualche modo a sostenersi.

Il Gold Bar ha il vile aspetto d’un magazzino o d’una trasandata sala d’aspetto di stazione ferroviaria.

Da un tetto a vetri, centrale, scende la luce sulla folla cinese innumerevole, mossa come in vortice e vociante, stridula e pettegola. Tutto attorno vi sono le cabine telefoniche e al centro il «ring» della lotta tra offerte e domande. Nella mezz’ombra, fuori dall’influenza del grande lucernario, i volti giallo-pallidi e le vesti di seta grigie o azzurrine, alternate ai gilè neri, le figure grosse o asciutte, gli occhiali affumicati o gli occhi attenti, i piccoli menti taglienti o rotondini, le mani scarne e vibranti si compongono con una patina d’antico che a momenti fa pensare a certi quadri d’affollati interni del Guardi. Nel«ring» è grande ressa di ragazzi risoluti, con parapiglia come a partite di calcio attorno alla palla. I venditori d’oro vengono in certi istanti critici assediati fino alla soffocazione. Tutti vestiti alla cinese, con queste lunghe gabbane, impallidiscono e Imbizzarriscono nello sguardo per la paura, agitano convulsivamente le mani e, se riescono a liberarsi, fuggono fuori dallo steccato per contrattazioni meno opprimenti.

Dalla formicolante e compatta distesa di teste con le papaline di seta è tutto un continuo elevarsi, simile a diavoletti da scatole a sorpresa, di mani indicanti con le dita l’offerta.

In un corridoio attiguo vi sono gli sgabuzzini degli agenti di cambio. Sono tutti europei, ma coadiuvati da compratori cinesi e da uno stuolo di fattorini. Ogni agente sta rannicchiato accanto a un centralino con linee dirette per ogni banca. I fattorini sono tutto un andare e venire. I campanelli trillano senza tregua: c’è la febbre del giuoco e l’atmosfera degli uffici telefonici dei comandi nei giorni di battaglia.

Il giuoco degli insulti

D’altro giuoco che appassiona il Cinese ci si può rendere conto andando a Long-wha, appena fuori dalle Concessioni: un villaggio dove è accantonata molta truppa. E’ un giuoco facile e assai divertente per chi lo fa: il giuoco a disprezzare lo straniero. Oltrepassato il limito delle Concessioni, difeso da cavalli di frisia, s’entra d’un balzo nella campagna cinese, tenera di verde e vaporosa di salici. S’incontrano Cinesi che ritornano dalla scampagnata recando rami di magnolie in flore. Presto ci si trova a rasentare vecchi templi attualmente occupati dalle truppe. Le lunghe mura sono tappezzate di grandi iscrizioni su fondo azzurro. La strada passa sotto a tutto un susseguirsi di archi con iscrizioni dello stesso stampo, che altro non sono che violenti incitamenti contro gli stranieri! vampanti pretese d’abolizione delle Concessioni e dell’extraterritorialità. I soldati vengono cibati di questo.

Avviene un po’ quello che è avvenuto in secoli passati in Europa presso gli eserciti a stipendi bassi, quando, per distogliere gli armati dalle preoccupazioni pecuniarie, s’è escogitato il punto d’onore coi conseguenti duelli. I soldati cinesi ci stanno perché trovano da divertirsi e gli stranieri subiscono perché la parola d’ordine è di subire.

Come arrivammo al piccolo villaggio, dominato da un’antica e grande pagoda, con viuzze fitte di botteghe, dove belle sculture, che tacevano parte del tempio, apparivano tutto d’un tratto meravigliosamente sorprendenti tra una vendita di carnami o di frutta, soldati e ragazzaglia hanno cominciato a scagliarci un noto insulto a base di molte zeta, che icoolies usano scambiarsi tre loro, quando si scontrano con le carrozzelle. Di ritorno dalla visita alla pagoda, dove alcune megere ugualmente ci accolsero con tale saluto, trovammoi vetri dell’automobile coperti di sputi. Le facce attorno ridevano. Il giuoco illimitatamente a loro favore. Evviva la Cina!

Nemmeno in Cina la giustizia è un giuoco, pure offre spettacoli pieni d’interesse. Andiamo alla Corte Provvisoria di Sciangai che è agli sgoccioli della sua esistenza. Prossimamente passerà totalmente in mano cinese.

Presiedo il giudice cinese Hsu coadiuvato da un assessore straniero. La sala, non spaziosa né solenne, è molto arieggiata. Un pubblico cencioso sta comodamente seduto su panche massicce. La sala è piena di agenti cinesi della polizia internazionale vestiti di panno blu scuro, grassocci, ma vigilanti e svelti. Sono stati istruiti dagli Inglesi. All’entrare dei giudici questi agenti hanno dato a gran voce l’annuncio, imponendo a tutti d’alzarsi. Il giudice cinese, dal volto pieno, porta gli occhiali e come tutti i giudici della terra ha l’aspetto di uomo indagatore e attento. Indossa una toga dal bavero di seta violacea con geroglifici rosa. In basso, ai lati, vi sono due seggi per i testimoni; di fronte, il banco degli avvocati difensori e del relatore sulla istruzione del processo. Dietro è il posto per gli imputati i quali devono rimanere durante tutta l’udienza ritti in piedi.

Ladri e banditi

Primi a comparire sono sette banditi che hanno commesso omicidi e numerosi ratti a scopo di ricatto. Il processo ha già occupato precedenti sedute, ora vengono solo per udire la sentenza. Sono autentici campioni di questa vasta piaga cinese. Facce orrende, dallo sguardo fisso, alcuni giovani, altri maturi. Le teste posano sul magro collo; hanno tutti l’espressione dei noti tipi di suppliziati alla tavola della fame visti sulle diffuse fotografie locali. Uno corporuto e barbuto è particolarmente odioso. Il loro posto non è chiuso da inferriate; gli agenti li circondano da ogni parte. Il giudice cinese mostra all’assessore straniero il grande foglio della sentenza, questi la controfirma, poi il giudice stesso la legge. Due, condannati a morte, gli altri, all’ergastolo. Non battono ciglio, pare non abbiano compreso. Vengono riportati via dagli agenti che, per farli camminare, somministrano loro solerti pugni alle reni. Si susseguono altri imputati: ladri in genere, e a questi si alternano semplici, contravventori per getto d’immondizie o per inosservanza alle norme stradali; e anche due Russi, un signore e una signora, per aver tenuto i loro cani senza museruola.

Gli avvocati sono cinesi. Indossano la toga. Alcuni sono piuttosto giovani e nutriti, teste grosse e frontute; uno è un vecchietto arzillo, con occhiali d’oro, baffetti spioventi, rossiccio alle guance infossate e col giallo della sua razza che gli sfuma alle tempie.

Mi si assicura che la retorica e le disquisizioni cavillose esulano dalle loro arringhe. Sono sobri e obbiettivi. I giudici cinesi invece, arbitrari, nel procedimento, corrompibili e politicamente influenzabili.

Durante il procedimento d’una causa commerciale, dove si discuteva di identità tra merce ordinata e ricevuta, l’assessore straniero propose una perizia, dato che nessuno dei due si intendeva di stoffe, sulla merce in questione; ma il giudice non ne volle sapere. Questo avviene in regime internazionale.

Il pubblico sta silenzioso, non si sa se spaurito o contento di godersi le ottime panche.

Più d’una volta qualche agente interviene con improvvisi scapaccioni per far togliere le papaline a gente che entra e non si scopre. In questi ultimi anni Sciangai è divenuta un vero covo di banditi; non passa giorno che non si verifichi qualche ratto di ragazzi di ricche famiglie cinesi o di commercianti cinesi a scopo di ricatto. E’ il delitto di moda. L’età del delinquente, in genere, è dai venti ai trent’anni. Rarissimi i casi di donne imputate di furto o d’altro.

Condannati a morte

Lo carceri della Concessione internazionale sono e rimarranno per buona fortuna sotto la direzione della polizia internazionale. Vi è un reparto per i Cinesi e un altro per gli stranieri. Entrambi sono tenuti in modo perfetto. E’ la tempra inglese che vi dà lo stile. La porta di ferro nell’alta muraglia grigia si apre; una folla di donnette attende di poter entrare. Il direttore è un Inglese dall’aspetto carnalmente violento, ma come è rigido nell’abito, così sa riuscire bonario nei modi. Lo segue il suo aiutante, freddo e col vestito senza una piega. I guardiani, tutti fedeli indù. Come per le strade d’ogni città, come nei teatri, come nei battelli, come sui campi, come negli ospedali, come nei negozi, negli alberghi e nelle trattorie di questa Cina, ecco, anche qui la ressa.

Migliaia di teste rapate, di occhi socchiusi, di volti lividi. Sono quattromila, di cui duecento condannati a vita e trenta alla pena di morte. Il direttore vuole mostrarmi ogni angolo: le cucine, i laboratori, l’infermeria. Si ha l’impressione di gente che sia finalmente riuscita a trovare un mestiere. Lavorano di gusto. Sarti, intagliatori di legno, tipografi, calzolai. I grandi stanzoni sono divisi da alte Inferriate e dentro stanno stipati a centinaia. Come si passa vicino, i loro occhi si alzano dal lavoro quel tonto che basta per poter vedere e studiare chi è il nuovo venuto. Mangiano quanto non potrebbero trovar da mangiare da liberi. Nella settimana la carne s’alterna al pesce, il riso viene condito con verdura varia e odorante. Quanta umanità per questi esseri per i quali è difficile sentir compassione, pur comprendendo come siano fuori da loro stessi le cause del loro male. Nelle scuole nazionaliste cinesi hanno insegnato ai bambini a cantare con orgoglio un inno che finisce cosi : «Siamo quattrocento milioni di Cinesi!» Ed è appunto questo il principio della fine d’ogni possibile organizzazione sociale e statale di questa razza!

II direttore alza un tovagliolo per farmi vedere il contenuto di alcune gavette allineate per terra; un soffio di vento porta della polvere di legno dalla vicina segheria ed egli subito si dà premura di ricoprire il cibo.

In un laboratorio c’è un falsificatore di banconote, che, non potendo più fare dell’aureo disegno, compone vaghi paesaggi e fiori con farfalle. L’infermeria è piena di altri che si lamentano, che si avvolgono di bende i corpi ulcerati; qualcuno legge un libro con posa attenta. Vero spasimante desiderio si pensa abbia da essere quello di un’acre fumata d’oppio. Passiamo davanti alle celle dei condannati a morte. Sono trenta celle attigue, chiuse non da porte, ma da sbarre di ferro; danno su d’un corridoio dove numerose finestre aperte e libere fanno vedere il sole sulla parete del casamento di fronte. I condannati sono seduti molto vicino alle sbarre e stanno mangiando. Fanno pensare agli urango. Quando vanno al supplizio, dice il direttore, sono contenti di finirla con la vita. Quali luci, prospettive e composizioni ferme e profonde, queste cancellate che perseguitano dovunque e questa folla di giacchettoni blu marchiati di rosso! In un reparto separato vi è una sessantina di minorenni.

Alcuni stanno rinchiusi a tre a tre in celle attigue, pure chiuse non con porte, ma con inferriate, — si ha l’impressione d’un serraglio, — altri sono liberi nei cortili. Qui fanno della ginnastica, là, guardati avidamente attraverso alle finestre aperte dai compagni rinchiusi, altri giuocano a mosca cieca.

Una macabra stanza da bagno

Il reparto per gli stranieri è in altra parte della città. E’ custodito da volontari russi, i resti dell’armata di Wrangel. I carcerati sono circa una trentina: indù di sudditanza inglese. Russi e Messicani. Viene aperta la porta di una cella; da una cuccetta balza su un uomo barbuto, gli occhi neri spauriti; è un Greco che ha ucciso sua moglie; la sua cella è piena di sole. In un’altra, spaziosa, c’è un ragazzo russo che con altri compagni rubò un’automobile per andare in Australia direttamente da Sciangai, ma arrivati sulla riva del mare furono doppiamente arrestati. Vicino, un altro Russo appare tutto distinto, abbigliato come per uscire, cravattina a farfalla, pettinato con cura: è in prigione puramente per debiti.

Nel reparto delle donne: una Russa ossigenata e quasi sciolte le chiome pare in piacevole conversare con la carceriera, una ragazzona tutta salute e anche bellezza. Cortili con alberi scarni; il cielo si copre di fumo portato dalle navi in porto. La cucina anche qui è buona e il pane bello e crepitante come non si trova nei ristoranti di fuori.

Ma l’aiutante del direttore dice che bisogna farmi vedere la stanza delle esecuzioni. Perché qui la pena di morte esiste, oltre che per i Cinesi, per gli stranieri che non hanno diritto all’extraterritorialità. Si percorre un ballatoio interno e in fondo ci si ferma davanti ad una porta. Si attendono le chiavi. Sopra sta scritto: Ablution room. Stanza da bagno. Non riesco rendermi ragione di questa scritta. Il direttore inglese mi spiega. E’ per non impressionare il condannato. Ah! quacherlte inglese! La porta si apre: una trave per la corda e sotto un trabocchetto che si dischiude. Finora tre hanno dato in questo luogo il loro ultimo respiro.

Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera del 16 maggio 1930

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