“Si, ci credo. Nella ragione, nella libertà e nella giustizia. Credo si possa realizzare, anche se non perfettamente, un mondo di libertà e di giustizia che sono, insieme, ragione. Ma la nostra è una storia di sconfitte: sconfitte della ragione, sconfitte degli uomini ragionevoli. Da ciò lo scetticismo, che è salutare. È il miglior antidoto contro il fanatismo. Impedisce cioè di assumere idee, credenze e speranze con quella certezza che finisce con l’uccidere l’altrui libertà e la nostra“.
Fra Il giorno della civetta e Il Consiglio d’Egitto, conservo un ritratto in bianco e nero di Leonardo Sciascia nella sua Racalmuto, un dono di Ferdinando Scianna, il fotografo che meglio di chiunque altro seppe ritrarre e interpretare lo scrittore siciliano. Sono passati cento anni dalla sua nascita, l’8 gennaio del 1921 e più di trenta dalla sua scomparsa, eppure sembra di ieri l’emozione per l’uscita di un libro di Sciascia o l’attesa di un suo parere intorno a un dilemma che scuoteva le coscienze. È l’autore italiano della mia giovinezza: ho letto e riletto i suoi libri, amo la sua passione per la giustizia e la libertà, e quindi per la ragione. Una volta scrisse che il Dizionario filosofico di Voltaire era un piccolo ma utilissimo grimaldello per interpretare la realtà e scardinare la menzogna. Altrettanto si può dire dei libri dello stesso Sciascia: stimolano il senso critico e il ragionare.
La sua aderenza ai principi di libertà e di fiducia nella ragion critica dell’Illuminismo erano finemente attualizzati sotto il segno della responsabilità individuale e della colpa. Da rileggere la prefazione che scrisse a un’edizione della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni: di fronte alle tesi contrapposte di un filosofo storicista, che giustificava gli orrori dell’Inquisizione con il contesto storico, e la condanna generale di Pietro Verri, che legava quegli orrori allo stolido fanatismo di quei tempi bui, Sciascia lodò Manzoni per aver messo in luce la responsabilità di giudici e funzionari, affatto ignoranti e affetti da creduloneria, e quindi consapevoli di perseguitare e condannare senza ragione i presunti untori. Nessun contesto storico può annullare o alleviare responsabilità e colpe individuali, ognuno deve rendere conto a se stesso e agli altri delle proprie azioni, è ciò che continua a dirci Sciascia con i suoi libri: «poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre».
Di Sciascia e della sua etica civile si può dire quel che lo scrittore, in Morte dell’inquisitore, disse di Diego la Mattina, il coraggioso frate di Racalmuto che lottò per la libertà fino a sacrificare la propria vita, vittima dell’Inquisizione: “era un uomo, che tenne alta la dignità dell’uomo”.
Memorabili la chiarezza e la precisione, la concretezza e l’antiretorica dello stile della sua scrittura. La cura nella ricerca della parola giusta e di un’esatta ricostruzione dei fatti storici e degli eventi umani, permette di definire Leonardo Sciascia con le parole usate per ritrarre l’investigatore protagonista del suo ultimo libro, Una storia semplice: “il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava”.
Dopo uno scambio di corrispondenza riuscii a parlare a lungo con Sciascia a Milano il 7 maggio del 1988: uno dei motivi del suo ritorno in città, oltre il sottoporsi a delle cure, era stato il desiderio di visitare ancora una volta i manoscritti stendhaliani della Sormani. Quel giorno in effetti, come succede con i veri grandi scrittori, si parlò più di libri altrui che di lui: Voltaire e Montaigne, Bufalino e Consolo, Stendhal ed Hemingway, “lo scrittore più stendhaliano del Novecento”. L’inevitabile dedica me la scrisse in un libretto di James Boswell che aveva letto con grande piacere: Visita a Rousseau e a Voltaire.
Ricordo poi le lunghe conversazioni con Claude Ambroise, curatore dell’opera omnia di Sciascia pubblicata da Bompiani. Mettemmo altresì a confronto lo scrittore siciliano con Mario Rigoni Stern, da lui tradotto in Francia e altro grande autore di cui quest’anno ricorre il centenario. Ambroise, tra l’altro, oltre ad aver pubblicato molti lucidi approfondimenti su Sciascia, ha lasciato un lungo saggio inedito dal titolo L’essere per l’assassinio, che a mio avviso non merita di restare in un cassetto.
Altre conversazioni che serbo con affetto nella memoria sono quelle con Marcelle Padovani. Un lungo dialogo tra lei e Sciascia, insieme ad un’interessante autobiografia dello scrittore, divenne il libro La Sicilia come metafora.
Ricordo che una volta involontariamente gli combinai uno scherzo. Avevo aiutato la mia ragazza a scrivere una tesi sull’influenza dell’Illuminismo nella sua opera, e gliela spedimmo con cartolina AR, che però non ritornò. Presentammo quindi una denuncia di furto alla Polizia postale. Qualche anno dopo inviammo un’altra copia della tesi a Sciascia, e quel giorno a Milano lui mi confidò: “Ecco perché una volta mi arrivarono i carabinieri a casa. In realtà ho entrambe le copie, si vede che era semplicemente andata smarrita la cartolina. Venga a trovarmi, così potrà recuperarne una“.
Non feci in tempo ad andare a trovarlo, le sue condizioni di salute erano molto precarie negli ultimi tempi. Scomparve il 20 novembre del 1989. Agili grimaldelli contro ogni fanatismo e becera ignoranza, ci restano i suoi libri, chiari e rigorosi, un pungolo a vivere secondo virtute e canoscenza.
Giuseppe Mendicino
Immagine in evidenza: “Ritratto di Leonardo Sciascia”, opera di Totò Bonanno, 1986, particolare (fonte: Wikipedia – CC BY-SA 4.0)