I “I Despoti del Cemento”, scriveva Giovanni Comisso in un’epoca lontana solo dal punto di vista del calendario.
Siamo, ancora, nel pieno di quella dittatura del costruire (male) che aveva suscitato le belle e accorate parole dello scrittore.
Comisso, se partiva dall’osservare la potenza distruttrice della ricostruzione post bellica nella bombardata Treviso, allargava lo sguardo vedendo già la folta schiera di ingegneri, commissioni edilizie, assessori ai Lavori Pubblici che ritenevano stupendo accordare il gotico e il barocco con il cemento.
Ora, il cemento è un materiale formidabile. Ma è assunto a simbolo della voracità costruttiva: fluido, veloce, plastico. Si comporta come le colate laviche: travolge e ricopre.
Il problema, ovviamente, non è il cemento, ma la voracità costruttiva.
Le figure che ricordava Comisso ( dall’ingegnere all’assessore ai lavori pubblici) non sono altro che gli agenti (certo ben consapevoli) di una visione dell’abitare, del costruire, del produrre, del gestire lo spazio e il territorio.
Antropocentrica, certo.
Cementocentrica, anche.
Profittocentrica, ancor di più.
Ma, alla fine, miope.
Priva della capacità di avere una visione, non solo estetica, ma temporale. Perché, nel tempo, i palazzoni, i quartieroni, i capannoni, perdono quel minimo fascino del nuovo e s’ingrigiscono: sono formicai senza nemmeno quella comunità che si trova nei formicai veri.
La cementificazione ci abitua al bello come straordinario, museale, e non contiene in sé alcuna riformabilità, alcuna recuperabilità.
E’ entrata persino nei nostri, individuali, gusti abitativi: sono quelle brutture che tanto bene ha tracciato Vitaliano Trevisan in “Tristissimi giardini”.
Perché la voracità costruttiva sia tanto forte è stato detto da molti, e in molti libri.
E se ne può, ancora, discutere.
Mi preme solo sottolineare che tale voracità può essere ostacolata solo dalla coscienza dell’abitare un territorio, non dell’appoggiasi sopra un territorio.
Solo dall’essere piante con radici e non transumanti.
Implica conoscere la morfologia, la storia, le dinamiche, le possibilità, il rischio, di un territorio.
E adeguarsi a queste grandezze.
Il che implica non passività, ma conoscenza e creatività.
Abitare le radure, non incendiare i boschi: solo lì si ritrova l’intelligenza di specie.
Per tornare al brano di Comisso, che chiudeva l’invettiva auspicando che le Sovrintendenze ai monumenti avessero il potere effettivo di difendere le città italiane, tutte come monumenti, bisognerebbe allargare a un controllo generale, potente e punitivo, che difenda città e territori, monumenti e paesaggi come unica possibilità in cui il tempo passato generi tempo futuro.
E non crolli. Non disastri. Non dissipazioni di risorse senza fine.