Vado in Valle d’Aosta con una vecchia guida del Touring del 1914. Le comunicazioni sono tutte indicate in base alle linee ferroviarie, ancora per qualche diligenza, raramente per automobili, e con più specificazione per i ciclisti ai quali si ricorda: «il vento periodico che soffia in giù verso le dieci e in su da mezzodì alle 18». Di questa valle famosa non mi attraggono i gruppi montani del Monte Bianco, del Cervino, del Monte Rosa, sono troppo sazio di montagne, ma mi attraggono invece i castelli.
Mi illudo di adorare i castelli, specie se accompagnati da tetre leggende di fantasmi.
In Valle d’Aosta sono parecchi ed è sperabile che colla grande luna che illumina queste notti sia possibile avere interessanti sorprese. Di questa valle non avevo che un lontano ricordo d’infanzia, datomi da una vecchia stampa vista in una villa dove andavo a passare l’autunno. Questa stampa era in un salotto, che sapeva di petrolio dato per lucidare il terrazzo, e rappresentava il ponte di Chatillon, con una scaramuccia proprio a metà del ponte tra soldati alemanni e francesi, o tra italiani e alemanni, non ricordo. I soldati avevano lunghi archibugi e cappelli piumati, il fumo degli spari si diradava leggero nella limpidezza dell’aria, giù sotto l’arco del ponte l’acqua scrosciava tra massi e cespugli, in alto, al di sopra della piccola mischia i monti si elevavano inesorabilmente sordi e sereni. Tutta una leggera trama di fronde ricopriva i fianchi di quelle montagne: stupendo era il senso di netta separazione tra la vita dei piccoli uomini e quella delle grandi montagne, un senso di indifferenza di queste che dopo molti anni mi è toccato di ritrovare perfettamente durante una guerra sul vero d’una battaglia vissuta pure tra alte montagne.
Questa vecchia stampa era tutta la mia Valle d’Aosta, ed era immensa, bellissima, indimenticabile: ora si trattava di compiere la difficile operazione di rivangare tutto e di aggiungere altre bellezze, fuori dalla fantasia e dai sogni suscitati da una stampa, ma sulla realtà del luogo. Ogni luogo esiste non per quello che è effettivamente, giacché allora, nel suo assoluto, non sarebbe altro che caos, ma per quello che uno ha sognato che sia. Ed è così che gli abituali turisti hanno sempre bisogno di una guida che dica loro questo è bello da vedere e questo è ancora più bello. Appunto perchè gli abituali turisti sono pigri nel sogno e nella fantasia e preferiscono subire quella d’un altro, la quale poi costituirà per essi la realtà del luogo visitato
Per esempio questa è la realtà di questa valle secondo la Guida del Touring del 1914: «Gli abitanti presentano forti differenze di tipo: bruni di viso e capelli e piuttosto gracili di forme, quelli delle parti inferiori delle vaili, (gozzo e cretinismo sono fra essi in continua e confortante diminuzione), man mano che si sale, così come il paesaggio, gli uomini diventano più belli; predomina il tipo biondo dal colorito florido e dalle membra vigorose». Divertentissima questa guida, pare fatta tutta a uso di vecchie signore capricciose, proprio per attrarle più su, più su verso le più alte vette.
I castelli medioevali, però, sono stati ingrati, il primo era abitato da gente moderna, attualmente in città, e il custode non poteva assumersi la responsabilità di lasciarmi entrare, e poi assicurò che tutte le stanze erano sottosopra, così da non potere dare una buona impressione.
Il secondo, quello celeberrimo di Issogne, recava, sulla porta chiodata, questa scritta: «Chiuso per restauro». Tuttavia nella dolce ora meridiana, mi posi a battere così forte col battente da fare scappare un branco di pecore che sostava nella piccola piazza, i colpi risuonarono di dentro e di fuori, infine una voce avvertì di avere pazienza, che subito sarebbe stato aperto, e la piccola porta intagliata nel portale si socchiuse e apparve una mezza faccia di vecchia con occhi cerulei e scarmigliati capelli biancastri. Alla richiesta di visitare il maniero, rispose che non si poteva; alla insinuante insistenza con promessa di mancia, ripetè un diniego più risoluto di prima; alla pressione contro la porta cercando di esercitare una dolce violenza, si diede a gridare spaventata: «Ma non sa che se la lascio entrare, mio marito mi impicca?». Immediatamente mi diedi per vinto, «quel mio marito mi impicca» mi aveva trasportato in un autentico medioevo più che se non avessi visitato il castello nelle sue parti restaurate o da restaurare e ne fui soddisfatto a oltranza. La porticina si era subito rinchiusa e sentii che veniva rafforzata con una spranga.
Rimpiansi di non avere potuto vedere le «curiosissime iscrizioni a grafito sulle pareti delle scale e corridoi» di cui parla la guida del 1914, iscrizioni rivelanti, forse segretissime chiacchiere di servitori o di castellani: solo per queste avrei dato l’assalto al castello.
Il terzo castello è quello di Verrès ed è così descritto dalla guida: «imponente costruzione cubica, dalle mura lunghe e alte trenta metri, quasi senza apertura, attesta la potenza di Casa Challant che lo eresse dai 1360 al l390, forse il più bel monumento della feudalità che sia nella valle. E il tipo fortezza del signore». Tali parole ridestarono il desiderio d’una visita al chiaro di luna, immaginando canti di gufi, frullare di pipistrelli e scricchiolii di travature e di pavimenti. Sarà una cosa fantastica; sostando a Verrès mi informo se nel castello vi sono fantasmi, ma il tabaccaio esterrefatto non sa rispondere al riguardo, sa solo che quello di Issogne è il castello di paggio Fernando.
Intanto si prosegue per Aosta, e a Chàtillon si volle ricercare il famoso ponte che dominava la mia fantasia infantile, ricercarlo rivederlo, forse per distruggere il sogno. A Chàtillon invece di un ponte sul Marmore, ve ne sono tre: uno moderno, uno antico (anche questo in restauro) e sotto a questo un terzo ridotto a rudero, di fattura romana, che non era visibile nella stampa.
Ma non fu delusione, quando rivolsi lo sguardo verso Aosta, come nella vecchia stampa i fianchi dei monti erano coperti dalla trama leggera delle prime fronde verdeggianti contro al cupo degli abeti e in fondo biancheggiavano i ghiacciai e ai lati si elevavano le alte cime statiche nella loro immortale indifferenza. La vecchia stampa del salotto della villa mi ritornò presente, persino con l’odore di petrolio che esalava dal terrazzo.
La luna sorgeva bianca e senza luce, ritornai verso Verrès per non mancare all’appuntamento notturno nel castello. La guida del 1914 dice: «chiave in Municipio, si è accompagnati dal messo comunale, 20 minuti dal centro, salita per la gradinata a nord della piazza del Mercato, un valloncello, fontana, continuare a sinistra». Già vedevo questo itinerario tra il chiaroscuro della notte lunare, ma trovato il messo comunale che stava a cena con tutta la sua famiglia: «Come», disse alzando il volto dalla zuppa, «non sa che il castello è in restauro?»
«Restauro o no, io voglio assolutamente entrarvi stanotte».
Tutta la famiglia mi guardò sbarrando gli occhi. Ma il messo comunale con una vera calma da uomo della montagna rispose che non poteva fare nulla perchè le chiavi erano a Torino. Non rimaneva che ritirarsi in buon ordine, davanti all’imponente costruzione cubica, dalle mura larghe e alte trenta metri, quasi senza apertura, ma visto che in quel paese vi erano grandi fabbriche costruite a foggia di castelli e alcune rosseggianti di fuochi attorno a cui uomini dal nudo torso passavano spingendo carrette di ferraglia, si pensò di visitare almeno queste che in vero venivano a sostituire in quella valle la tramontata potenza dei castelli. Ma sembrava esistesse una persecuzione, anche qui era vietato l’ingresso.
Giovanni Comisso
Pubblicato nel n. 1 della rivista “La Lettura del Medico” del gennaio 1955.
Immagine in evidenza: Castello di Fenis-panoramio (foto di cisko66, Wikimedia Commons)