Premio letterario Giovanni Comisso
"Carnevale di Venezia" di Giovanni Comisso

Carnevale di Venezia

È sul finire dell’estate che a Venezia fioriscono certe strabilianti pazzie, quando il caldo si smorza al primo temporale col presagio dell’autunno. Il grande cielo si ricompone di nubi diverse ai quattro angoli roteanti attorno alla cupola serena. La piazza si rivela il più grande teatro del mondo. È per vero un teatro anzi tutto un palcoscenico a sipario aperto con fondale che varia dovunque ci si gira. Certi aspetti si comprendono a finto senza necessità di dimostrazione e gli uomini di ogni razza come entrano in questo palcoscenico sentono che devono recitare una loro parte, quella parte che fu trattenuta intimidita nella loro città d’origine: la parte della suprema follia.

La situazione non è nuova, penso che risalga da quando questa piazza ebbe consistenza. Nel decadere di Venezia, nell’ultimo secolo, la vita, qui, doveva essere assolutamente paradossale se le leggi sul costume dovettero intervenire minacciose a vietare mantelli colorati e frange dorate. Questa situazione non ha trascurato di crearsi anche in momenti oscuri e difficili.

Negozio di maschere a Venezia (di Chitrapa, Wikimedia Commons)

Era veramente un tetro carnevale quello del 1944, ma funzionava lo stesso rapporto tra questa piazza e gli uomini, come tra il palcoscenico e gli attori. Certi soldati di quella falsa Italia, esuberanti, vestiti di tela mimetica, passeggiavano armatissimi non si sa se per fare credere d’essere esponenti di formidabili compagini combattenti o per incutere terrore, ma quella tela macchiata di verde, di giallo, di grigio lontana dal mimetizzarsi con le pietre secolari buffoneggiava grottesca. Truci ragazzetti ugualmente mimetizzati davano spettacolo con un paio di pistole per ognuno, grandi come un loro braccio e i ciuffi alla brava si protendevano sulla loro fronte. Soldati mongoli inquadrati dai tedeschi con alti stivali e calzoni a doppio fondo, cavallerizzi delle steppe, spiavano con occhi socchiusi increduli se questa piazza fosse un possibile maneggio. Erano assenti i cavalli della Basilica. Poi si susseguì l’altro spettacolo: degli indiani, degli scozzesi.

La piazza fu una grande fiera di guerra finita ed ora ritorna la piazza del tempo di pace con un suo stravagante vestire modellato secondo la fantasia d’ogni parte del mondo. È uno spettacolo che si recita nel giro della giornata. Incomincia la mattina con una musica di zufoli e di pifferi fresca e saltellante come l’aria che viene dal mare risvegliato dal sole. È una banda bergamasca con cappelli di feltro color tonaca di frate e i volti sono bruciati e aspri mentre gli occhi si illudono alla musica pastorale che si diffonde nel palcoscenico rispettabile. Più tardi una decina di vecchie contadine: sfilano a due a due prese per braccio come per non perdersi come una mascherata di vecchie, vestite di nero, con borse e cestini colmi di viveri e di bottiglie; ridono come bambine che escano dall’ asilo.

Foto di Helena Jankovičová Kováčová

Ma sul mezzogiorno arrivano i grandi stravaganti. Le donne in calzoni scherzano col mito dell’androgine, altre invece, la cui bellezza inclina coi bianchi i capelli, mantengono le sottane e si incoronano di ampi cappelli che sono un po’ eccezionali come le ultime parrucche, quando erano già state condannate dalla Rivoluzione. Le teste femminili, libere dal cappello, trasformano le chiome in fogge diverse, una arriva a raccogliere tutti i capelli al sommo della testa stretti da un nastro e il resto si erge a ciuffo come credo usino i cannibali. Un tirolese passa in calzoncini di cuoio e i soliti calzettoni di lana sono ridotti a coprire, non si sa per quale ragione, soltanto il polpaccio. Le magliette vanno dai gialli teneri al celeste paradisiaco come per i bambini, e a volte si tratta di uomini seri.

Vittorio Emanuele Bressanin (1860-1941) – Wikimedia Commons

Tutti si sentono in questa stagione e in questa piazza nella possibilità di essere o apparire folli. Uomini che grande parte dell’anno trattano posatamente di affari, che compiono con rigidezza ogni loro azione, quando entrano qui, e senza avere bevuto, diventano ebbri superando gli ebbri abituali.

Ma tutta questa stravaganza finisce col non fare risaltare la bellezza, né col crearla. Sembra che tutti sappiano di essere brutti e vogliano distrarre da questa certezza. Tra la girandola danzante dei cappelli con piume bianche, con penne rosse e nere, delle teste scoperte ossigenate o ribollenti, riemergi il reale una paglietta di quelle che si usavano trent’anni addietro, solenne, resistente, dominante, bella e dorata come una vecchia pergamena, come un prezioso avorio.
Giovanni Comisso

da Il Tempo dell’ 11 ottobre 1948

Immagine in evidenza: Foto di Paolo Motti

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