Articolo uscito sul Giornale di Vicenza il 2 novembre 2018
ANNIVERSARI. L’autore scomparve 40 anni fa, Mogliano gli dedica un itinerario, Neri Pozza riedita “Il cielo è rosso”
In un memorabile ciclo di conferenze sugli scrittori veneti a Treviso nel 1981, tre anni dopo la scomparsa, il critico Geno Pampaloni lo definì «autore quasi neorealista, maestro nel descrivere il peso della vita», mentre Alberto Moravia lo ignorò del tutto.
Su Giuseppe Berto, morto 40 anni fa, il primo novembre 1978, non ci furono a lungo mezze misure. Lo si amava, come per esempio Giancarlo Vigorelli che ne esaltò “Il male oscuro”, o come Hemingway che definì “Il cielo è rosso” un capolavoro assoluto.
Oppure lo si odiava, come lo stesso Moravia per rancori legati ai premi letterari e come tutta la cultura di sinistra che non gli perdonava un passato di fascista.
Soltanto di recente – come sta accadendo a un altro grande trevigiano a lungo dimenticato, Giovanni Comisso – Berto sta uscendo dall’immeritato oblio, mettendo tutti d’accordo sull’importanza della sua opera.
Esiste già da tempo un premio letterario a suo nome, e in questi giorni la sua città, Mogliano Veneto, ha perpetuato i suoi luoghi con undici cartigli in acciaio affissi nei punti da lui narrati e vissuti, creando così un itinerario letterario.
La dodicesima targa è invece a Ricadi in Calabria, dove lo scrittore si trasferì ed è sepolto.
E intanto la Neri Pozza – l’editrice che ha raccolto l’eredità intellettuale del vicentino Neri Pozza (1912-1988) – ne sta ristampando i romanzi: “Il male oscuro” è un viaggio nella depressione senza interpunzioni, un lungo sfogo obbligato e liberatorio, che gli procurò centinaia di lettere di lettori che si riconoscevano in quei problemi e, più che in Svevo o in Gadda, nel suo “stile psicanalitico”.
“La gloria”, dal quale Nicola De Cilia ha appena tratto un lavoro teatrale, riscrive la biografia di un Giuda mai così tormentato ma mai così necessario al disegno divino. “Anonimo veneziano” è in realtà la trasposizione della sceneggiatura scritta per Enrico Maria Salerno per il fortunato film del 1970 con Tony Musante e Florinda Bolkan, uscita un anno dopo.
Il 6 dicembre toccherà a “Il cielo è rosso”, storia di una generazione di ragazzini impegnati fallacemente a sopravvivere dopo il bombardamento di Treviso, che Berto narra mirabilmente pur senza averlo vissuto (nell’aprile del 1944 era prigioniero negli Usa).
Opera attualissima, la sua, sviluppata intorno a un groviglio dei sensi di colpa: per gli studi pagati dai genitori ma malriusciti, per l’adesione del suo credo e dell’Italia alla guerra, per il contrasto tra il suo considerare lo scrivere metà missione e metà obbligo e i numerosi insuccessi letterari riportati in vita.
Il tutto legato a consapevolezze del dovere e dei luoghi che lo hanno reso profondamente veneto, anche se, come rivela la figlia Antonia, detestava le etichette.
«Il mio paese è una strada», scrisse di Mogliano, tagliato in due dal Terraglio, lustri prima che si diffondesse anche nella letteratura la denuncia dei paesaggi e degli animi devastati dal traffico e dai capannoni.
Non a caso fu amato da Zanzotto, malinconico cantore di identità e terre perdute.
Ma prima aveva incantato Comisso, che spedì il manoscritto de “Il cielo è rosso” a Longanesi, a Milano, suggerendone la pubblicazione: soltanto che sbagliò indirizzo, e il plico non giunse mai.
Fu Berto, mesi dopo, impaziente, a scoprirlo recandosi personalmente dall’editore.
Che dopo la consegna del materiale lo fece inseguire da un usciere per metterlo sotto contratto sotto gli occhi di un meravigliato Montanelli.