Sempre così con i miei amici scrittori, con i miei compagni di strada. Nei giorni precedenti alla morte di Antonio Baldini eravamo in Sicilia con Arnaldo Bocelli e lo si aspettava laggiù, a Enna, a presiedere il premio Nino Savarese e mi auguravo di incontrarlo per vivere con lui dopo tempo, alcuni giorni, assecondato dalle sue sottolineature ai fatti della vita che da cinquanta anni di amicizia mi deliziavano sempre. Non venne, ma lo ricordammo con gli amici ed egli ci apparve come in un supremo saluto.
Il nostro primo incontro fu a Udine, nel 1917, in un giorno spaventoso. Io vi facevo il corso per allievi ufficiali e Baldini, dopo che era stato ferito in un combattimento a un braccio, vi era destinato presso il Comando Supremo, come corrispondente di guerra. Avevo letto le sue cronache di guerra che scriveva settimanalmente sulla “Illustrazione Italiana” e io ancora fuori dalla porta dello scrivere lo ammiravo per la sua semplicità e chiarezza che mi riescivano nuove. Mi era rimasta indimenticabile e magistrale una figurazione, quasi giottesca, della Duchessa d’Aosta che egli aveva fatto avendola vista in un ospedale di guerra. Era allora insomma il mio scrittore preferito.
In quel giorno a Udine era scoppiato un deposito di munizioni alle porte della città, io armato, perché stavo facendo gli esami di comando in un prato vicino alla stazione, con altri colleghi cercammo di fare un poco di servizio d’ordine. Nel portone d’ingresso di una banca un gruppo di persone stava indeciso se uscire o rintanarsi al succedere degli scoppi dei proiettili da trentacinque. Uno, il più loquace, quasi godeva dell’avventura. Diceva che stava allo sportello di quella banca per incassare un assegno e a ogni sparo il cassiere gli appariva e dispariva per nascondersi sotto al banco. Tra quel gruppo, che era di giornalisti presso il Comando Supremo, vidi uno che conoscevo e mi presentò a quegli che aveva parlato: Antonio Baldini.
Ammirando le sue cronache di guerra, che poi dovevano formare: Nostro Purgatorio, ebbi il tempo di dirgli che ero un suo lettore. Subito dopo altri scoppi di grossi proiettili spezzarono le vetrine della banca succhiandole come fossero di gomma. Sospinsi quei giornalisti dentro all’ingresso, dicendo non era possibile uscire perché sulla strada erano caduti i fili della luce. Baldini non voleva retrocedere, voleva gli lasciassi vedere quello che succedeva. Di fuori automobili, autocarri carichi di militari, di ufficiali, di donne e di borghesi fuggivano tra il precipitare delle tegole e grida.
Baldini pacato e lievemente sorridendo mi disse: “Sembrano gli ultimi giorni di Pompei” riferendosi a un film di quell’epoca.
Finita la guerra ci rivedemmo a Roma, al caffè Aragno, ero con lo scultore Arturo Martini, ricordai a Baldini quel giorno di Udine, si ricordava di me e rinfrancammo la nostra conoscenza.
Ci eravamo conosciuti in un giorno spaventoso di questa nostra epoca, che si può dire fu ed è, tutta come quel giorno, ed egli sempre la commentò con il suo sottolineare pacato, lineare, chiaro e lievemente sorridente, un sorriso che non si spegneva più.
All’arrivo delle squadre fasciste a Roma, nel 1922, fece in tempo a pubblicare un suo articolo dove diceva che le strade di Roma, nel lungo scorrere dei secoli, avevano visto tanti trionfi, tanti cortei sfilare, tanti eserciti di tutte le parti del mondo sfilare e passare: quelli erano passati, ma quelle strade erano rimaste ancora, e si sentiva che sarebbe stato profetico.
All’Aragno seduto sul divano che costeggiava la parete egli lasciava sempre che tutti parlassero, vi era Cardarelli con quelli della Ronda, quelli dei Valori Plastici, e più tardi Longanesi con quelli dell’Italiano. Tutto sembrava catastrofico, precario e sempre, durante una pausa, egli interveniva, sottolineava con la sua voce pastosa e si doveva ridere, giudicare diversamente, rasserenarsi come da un punto di osservazione offerto dalla storia. Come nel giorno disastroso di Udine.
Ma egli sapeva usare anche per sé stesso questo commentare. Un giorno in cui lo ritrovai a Roma, egli sempre liscio al volto fresco giovanile, aveva invece una infezione al mento che non si ristagnava, qualcuno gli chiese cosa avesse. Rispose: “La barca comincia a fare acqua” e aveva sempre quel breve sorriso all’angolo della bocca, il sorriso di Melafumo a cui faceva da contropeso la sua voce pacata, pastosa per fermare un’idea, una sua idea veritiera e indimenticabile.
Quando cominciai a vararmi nello scrivere e nel pubblicare la nostra conoscenza, allacciata sempre a quel giorno di Udine, divenne amicizia. Voleva che collaborassi alla Nuova Antologia da lui diretta, ci si trovava più spesso in casa di amici comuni, vidi il suo ragazzo, Gabriele, diventare uomo, il tempo passò, passò come sempre troppo in fretta per uno scrittore, le nuove generazioni sopravanzavano irruenti, la sua amata inerzia fatta di commento parlato, divenne silenzio. Era difficile vedersi.
Ora, uno dei miei soliti estri errabondi mi aveva, in questi giorni, portato a Enna, nel centro della Sicilia. Speravo di rivederlo per una di quelle fatalità improvvise riservate alle vecchie amicizie, sapevo avrebbe dovuto esservi, non venne, non poteva venire, il tempo era burrascoso e si parlò tanto di lui. Bocelli ci ricordava le sue battute migliori, quelle che nella sua giovinezza battagliera facevano ammutolire i colpiti. Certe sue critiche di due righe che avevano fatto mutare strada a giovani scrittori nascenti.
Come ci si sarebbe divertiti se fosse venuto. Come avrebbe anch’egli osservato che tra i siciliani, uomini politici e scrittori, il radunarsi per celebrare un premio letterario, costituiva un fatto di serietà, con discorsi esatti, ricordando con saggezza critica Giovanni Verga e la sua arte, senza enfasi, senza retorica, senza accentuazione regionale, come discorsi tradotti dal greco in un puro italiano. E anch’egli avrebbe fatto il raffronto con altre celebrazioni di premi letterari, come usano nel cosiddetto continente al ritmo di canzonette e di balletti.
Giovanni Comisso
da Il Mondo del 20/11/1962
Fonte immagini: Antonio Baldini Scrittore e Wikimedia Commons