Ritorno su Arturo Martini. La sua mostra a Treviso mi riporta indietro nel tempo, la vita è corsa inavvertita dalle nascite alle morti e ora ne posso valutare meglio le altezze.
La fame. Ai tempi di Arturo Martini gli artisti operai pativano la fame e non mangiavano certo come la borghesia. Ho dovuto accorgermi durante il bombardamento di Treviso quanto mangiasse la borghesia dovendo mettere in salvo parecchie suppellettili che servivano a portare in tavola le vivande: molti arrosti, molti lessi, molti intingoli con le relative salse, Le famiglie aristocratiche invece mangiavano diversamente, avevano amicizie nelle tenute reali di San Rossore e da qui venivano sempre ad ogni anno le grossi parti di cinghiale che venivano cotte dopo bagni di acqua e aceto e le sagge signore avevano sempre da dire che non lo trovavano molto buono e arricciavano il naso. E ancora vi era la tavola del popolo che mangiava alle infime trattorie della città; ma allora una zuppa di pasta e fagioli era in verità di pasta e fagioli come il baccalà con polenta era tale e non vi erano vie di mezzo.
Così andavano avanti gli artisti e dicevano di morire di fame. E fame fecero, quando andarono all’estero, Martini e Rossi. A Parigi per sfamarsi usavano dipingere di nuovo colore le biciclette rubate, oppure riempivano di latte una bottiglia semipiena di fagioli: il latte continuamente sovrabbondava perché i fagioli si gonfiavano e crescevano. Artisti come Martini avevano anche bisogno di denaro, fare della scultura costava ed era più che altro un mestiere da gente ricca o disposta a soffrire molto. Il modello costava sempre e bisognava mantenerlo. Le statue dovevano essere fatte di estate, per evitare il freddo. Anche l’artista doveva stare bene perché di continuo in movimento, altrimenti gli si fermavano le mosse. Martini doveva camminare molto ed era sua abitudine fare molte camminate fuori dalle porte della città, nella vasta campagna che si schiudeva immediata.
La vedova Brigida rammentava come a Vado Ligure subito si era diffusa tra le ragazze locali la notizia di quest’uomo che parlava in modo incantevole e lei lo volle conoscere. Ancora diceva la Brigida della paura di Martini per la pazzia: se fosse stato sospinto da questa non gli si facesse mai mancare, come a Rossi, i colori per dipingere. Era una sua paura trovarsi isolato e senza i mezzi per creare, ma non gli fu così nefasta la vita.
Pare impossibile, ma nella vita nulla va perduto se memorabile. Alla mostra di Martini vi è il manifesto dei Rifiutati che è del 1915. Ricordo benissimo quel manifesto in un caffè di Treviso e si credeva smarrito, disperso. Vi era di mezzo la guerra e a noi che si partiva quella figura elevata, con le opere protese, fece grande impressione. L’artista aveva messo ai piedi del Rifiutato le opere alternate ai fiori autunnali. Si voleva dire in traduzione quei versi di Beaudelaire che sempre ritornavano nei nostri discorsi: “E chissà se i novelli fiori che io sogno troveranno il loro mistico alimento che dia la vita. Oh dolore, oh dolore, il tempo mangia la vita e cresce e si fortifica con il sangue che noi perdiamo ogni giorno”. Quel manifesto bellissimo era stato da noi ricordato ed era rimasto impresso nella nostra attesa. Era troppo grande per una piccola città come Treviso e doveva rimanere memorabile. Treviso allora viveva come Parigi o Monaco di Baviera, l’avvenire gravava nei cieli. Adesso ci si accorge che cosa può fare un essere umano purché viva.
Gli unici che facevano credito alla intelligenza di Martini erano i camerieri dei caffè. Quando gli venne assegnato il primo premio alla Biennale, pareva dicessero che il riconoscimento di quello che i cittadini chiamavano “il pazzo” e non grande artista era riservato a loro. Essi avevano sempre sperato, sempre atteso e si sentivano onorati che ora il destino segnalasse questo loro protetto tra gli indicati dalla fortuna e dalla gloria.
Ora capisco che nessuno può portare con sé di più di quanto il destino abbia stabilito che si stenda sulle sue spalle. Di Martini è stato realizzato per fedeltà di amici e per soggezione alla gloria quanto è stato. Con questa mostra si è anche dimostrato quanto può essere raggiunto da una forza umana, ma non è tutto. Per una ragione o per altra non è stato possibile radunare tutte le sue opere. Ad ogni modo si ha una cognizione estrema delle possibilità creative di Arturo Martini.
Tutto il di più fa parte di una nomea impalpabile che tuttavia si tramuta in fama, ma il destino degli uomini è quanto mai precario. Della famosa statua “Donna che nuota sott’acqua” di cui egli andava tanto superbo, non si può esporre l’opera perché murata entro una camera ad un certo piano. E per avere un’idea esatta e completa di quello che Martini poteva fare ci vuole che molto tempo passi sotto gli archi. Anche il nome di Martini è in Europa e in America meno conosciuto di certi autori italiani che gli sono assai inferiori e qui bisogna che lo studio e la conoscenza di Martini si facciano adeguati e profondi.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul quotidiano “Il Giornale d’Italia” del 15 novembre 1967 con il titolo “Paura della pazzia”.
Immagine in evidenza: Arturo Martini – “Palinuro” e la “La scala del sapere” di Gio Ponti (by Joe Shlabotnik, CC BY-NC-SA 2.0, Università di Padova).
La foto del manifesto: Arturo Martini – “Esposizione di alcuni artisti rifiutati alla Biennale veneziana”, ca 1914, Raccolta Nando Salce.