Su dalla distesa azzurra del mare apparve il rosa delle aride montagne del Belucistan e presto le acque si fecero fosche, perché già confuse a quelle dell’lndo. Ci vennero incontro snelle vele di pescatori dai turbanti arancione e poi arrivammo a Caraci, città di duecentomila abitanti e tanto estesa da poter accoglierne il triplo. Il porto è sulla foce di uno dei grandi rami dell’Indo. Porto commerciale assai importante; qui il cotone ha il suo principale punto d’imbarco. Tra qualche anno sarà pronto il nuovo porto: circa sette chilometri di banchina. Le balle di cotone stanno accatastate sugli ampi piani di caricamento, come massi di alte piramidi sfasciate. Strade in asfalto lunghe e diritte, magazzini, ponti e cavalcavie, case basse, giardini, ville: quartiere inglese o quartiere indigeno.
I mendicanti, i facchini, i barcaioli, le guide e tutti i petulanti invocatori di mance qui chiamano l’europeo John; e si pensa al rumi di Tunisia.
«British Justice»
Altrove avevamo deriso come pretenzioso il nome di British Justice dato a una nave petrolifera: e i marinai di una nave da guerra inglese, ubriachi e rissanti tra loro per le vie di Porto Said fino al punto da scaraventare le sedie contro la folla incuriosita, nel disgustarci ci avevano dato presentimento di decadenza. Ma qui l’aspetto è diverso. Eccolo il rumi dei nostri giorni. Divisa equatoriale, scudiscio alla mano, portamento rigido, sicuro e sprezzante. Amministra questa terra vasta e caotica prodigiosamente e con polso di ferro, animato dal sacro senso del proprio interesse soprattutto. E questo popolo d’India, così pronto a sdraiarsi per terra, oggi vorrebbe liberarsene. British Justice! La nave petrolifera era un simbolo veritiero. Gli scaricatori di porto vengono pagati con otto anna al giorno, pari a lire italiane tre e venti. Quale pena nella notte fredda di vento, questo ragazzetto decenne addetto ai segnali delle gru che trema cinereo in volto, con un solo filo di voce, tuttavia instancabile ancora a gridare. Sarà vivo egli domani? E un Governo autonomo saprebbe far dare di più? E imporre le leggi sulla tutela dell’infanzia in rapporto al lavoro?
L’estasiato stupore col quale l’indù si ferma a guardare l’europeo che passa per le strade del suo bazar e l’improvviso sgomento d’ingenuo che lo prende non appena si rivolga lo sguardo contro le sue pupille fanno pensare che egli appartenga a una razza succuba per sempre.
«Jai ooo! Jai ooo!» gridano gli scaricatori nello spingere i vagoni colmi di cotone verso le gru; lavorano come dannati fino al momento di riposo per un’avida fumata a una pipa comune e poi s’accosciano sulla polvere per farsi comprimere dalla violenza del sole.
Puro folclore…
Case d’un giallo chiaro, come imbevute di sole e di polvere, con qualche decoro alla sommità che si ripete monotono sulle anfore, sulle stoffe e sui gioielli. Subito retrostante alla città c’è il deserto dove striscia il cobra, e quando spira il vento del nord una fumea di polvere sferza la città fino a smorzarsi sul mare irrequieto.
Parte della popolazione è maomettana e parte indù. Colore della pelle e occhi diversi. Ecco gli uni che pregano rivolti alla Mecca con genuflessioni a tempo dal poggiuoli delle case o sotto a brevi tettoie sulla strada. Gli altri ritti sulla gradinata che scende al mare, immobili a mani congiunte e la fronte illuminata dal sole; quindi s’immergono più volte nelle acque, con infinito pudore si cambiano di cenci e tramutano il benessere dell’abluzione mattutina nel gesto generoso di dar da mangiare ai gabbiani stridenti. Altrove donne velate e donne dal volto scoperto. Occhi incandescenti tra il nero della pelle e altri attoniti in accordo col giallo dorato del volto. Appena s’entra nel mezzo di questa folla, la certezza del brutto e del miserabile ci prende. Gente stracciona oltremodo, nonostante le vive tinte delle stoffe. Ma dopo qualche tempo le bruttezze si fondono informi e non più avvertibili per dar posto al raro risplendere di bellezze ammirabili. Anche il loro modo di vestire finisce col piacere e rivela una segreta snellezza del corpo. Gli uomini si ravvolgono dalle anche in giù d’un drappo con le estremità rimboccate alla cintola e di sopra portano la camicia libera al vento. In testa il fez o il turbante o un cappellino simile a una mezza bombetta, rosso o bianco, con una corta tesa, che in certo qual modo dà a loro un’aria di clowns.
… e vecchie tradizioni indù
Ma il turbante dona supremamente. Turbanti rossi, violetti, gialli, arancione con un lembo eretto sul capo a foggia di cresta o di pennacchio e l’altro pendente dietro alla schiena come una sciarpa o ravvolgente il collo. E bisogna vedere con quale misura e compiacenza, dopo il bagno sacro, ognuno si compone il proprio. Le donne hanno pantaloni stretti e uno scialle a tracolla che al sole rialzano sul capo, monili d’oro e d’argento ai polsi e alle caviglie e borchie d’oro alle narici. Mendicanti o addette a spazzare le strade, esse non mancano del conforto di tali ornamenti.
Nel bazar freme la vita. Fin dai primi passi, dopo lo sbarco, tocca osservare per terra e sulla calce dei muri larghe chiazze rossastre come di sangue rappreso. Dovunque sul terreno, e fin sulle pareti di legno lungo le scale degli interni, queste macchie si ripetono col sospetto di sangue versato. Sono gli sputi dei masticatori di betel. Ecco i negozietti dove lo preparano. Un ragazzo lava accuratamente le verdi foglie che servono ad avvolgere il boccone di calce e di betel; e le gengive e i denti s’arrossano orrendamente. Passano zebù accoppiati agili e svelti al traino dei carri e cammelli callosi e sublimi dalle zampe soffici come spugne. Passano mendicanti ciechi in fila con la mano uno sulla spalla dell’altro e il primo su quella d’un fanciullo che fa loro da guida. E dovunque bighellona la vacca sacra sicura di sé e della sua libertà, invadente nei vicoli più stretti, nelle strade più affollate, pronta a intralciare il passaggio. Il bazar nella vecchia Caraci serpeggia di stradette fitte di negozi simili a piccoli palcoscenici, con padroni sdraiati sui cuscini in assorta attesa. La folla passa e si sbanda. Polvere, odori di rancido e sole irruente. I venditori con gesti eleganti delle mani sottili provano il suono delle monete e lanciano la merce sulla bilancia. Luccicano chiome nerissime al sole, e sulle fronti elevate appaiono dipinti i segni delle varie caste. Pochi vestono all’europea, è la volontà di Gandhi che impera; ed è una fortuna perché chiusi nei nostri abiti assumono espressioni cosi spaurite e stonate da far fuggire.
La traccia del più forte
Coi piedi affondati nella loro terra pregna di tradizioni antiche e magnifiche, il loro sguardo e la loro intelligenza non possono non rivolgersi all’Europa. Il marchio della dominazione inglese ha finito col divenire corroborante. Per l’indiano oramai l’Europa esiste col desiderio di assimilarne la forza.
Figli di ricchi indiani vanno a Oxford e a Cambridge per laurearsi in legge e al ritorno in patria diventano agitatori di rivolta.
La radice delle nostre parole più essenziali ci fu data dalla loro lingua, il concetto di anima pure. Popolo pronto a sdraiarsi per terra e a pregare rivolto al sole, sente la natura nella specie elementare come un secondo grembo. L’Europa esiste, ma i nostri laboratori e le nostre officine sono duri cimenti per gli spiriti astratti.
Il fachiro seminudo assiso sulla polvere sta immobile accanto ai carboni accesi, mentre scende la notte, e il suo petto s’illumina di riflessi.
Tramontano nei secoli le tradizioni, le razze si sovrappongono alle razze, connubi e innesti, e il più forte lascia sempre la sua traccia benefica.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 13/02/1930
Immagine in evidenza: Karachi Municipal Corporation (KMC) Head Office at M.A Jinnah Road – Photo By Aliraza Khatri (fonte: Wikimedia Commons)