Mosca, agosto
Appena scesi alla stazione, qualcuno ci domandò quanto costasse la nostra vile valigia di pelle e se volevamo venderla. Mai si sarebbe pensato che avesse potuto divenire desiderabile, ma qui il cuoio è introvabile; e non solo il cuoio. Le vetture tranviarie scarseggiano, gli autobus pure e i« taxi »non saranno più d’una decina. Come mezzo di trasporto ci sono anche le carrozze a cavalli dell’antico regime, che hanno resistito a tutte le intemperie rivoluzionarie. Ma sono inabbordabili, tanto è esagerato il prezzo. Questi vetturini, abituati alle forti mance dei signori d’un tempo, non possono sopportare il nuovo stato di cose e bisogna mettersi a chiacchierare con loro per sentirne di cotte e di crude. Si vedono resse enormi che danno violentemente l’assalto ai tranvai. Bisogna desistere dal servirsene e mettersi a visitare Mosca a piedi. Del resto dopo dodici giorni di treno la cosa non riesce sgradita.
Al ristorante di Stato
Il primo aspetto di questa capitale (impressione che poi si matura e rimane) è del tutto simile a quello d’una delle nostre città, come Udine o Treviso, qualche mese dopo la fine della guerra.
La folla è in prevalenza formata da operai, ma più trasandati e più tetri di quelli degli altri Paesi del mondo. E le donne più eleganti fanno pensare a certe figure di decadute che si vedono sul « boulevards » di Parigi a vendere fiori. Il girare a piedi, a lungo andare, ci avverte che le strade sono sconnesse come tormentate da un movimento tellurico, i marciapiedi infranti, il selciato appuntito; in qualche punto però si lavora per asfaltare, e dicono che entro a qualche anno ci saranno strade come nelle altre capitali d’Europa. La curiosità non riesce a sostenerci. La stanchezza pretende riposo, ma non ci sono né caffè, né bars: bisogna sederci sulle panchine di qualche viale.
Eccoci ad avere anche appetito e allora si va a rintracciare uno del quattro ristoranti di Stato a uso dei forestieri. Hanno apparenza anche abbastanza sontuosa, con specchi, divani, poltrone, piante ornamentali, paralumi, ricchi piatti e posate; ma bisogna attendere lunghe mezz’ore prima che il cameriere venga a prendere l’ordinazione, tanta è la gente, e poi altre lunghe mezz’ore prima di venir serviti. Una zuppa, un piatto di carne, una bottiglia di birra: dalle ottanta alle novanta lire. Ma, strana cosa, dacché siamo In Russia, appena al primo cucchiaio subito si sente svanire l’appetito e sorgere una profonda nausea. Sembra che quasi domini nell’atmosfera l’incubo della fame che gli altri tormenta.
Partendo dalla Piazza Rossa si percorre una grande strada in salita. La città è tutta costruita su un terreno ondulato. Si guardano le facciate di queste case che hanno visto sotto di sé le mitragliatrici e i cannoni sparare sulla folla: sono livide. Si osservano i negozi. Le librerie sono frequenti, con vetrine ben disposte: in una sono esposte le fotografie dei nuovi scrittori in corona attorno a quella di Gorki.
Ci viene garantito che ora si legge moltissimo. Prima della rivoluzione un buon libro non raggiungeva le settemila copie, ora invece le centomila sono un minimo.
Ancora si assicura che non passa anno senza che vengano segnalati due o tre libri di grande valore, Quest’anno è la volta di Sciolokov con il Don Tranquillo e di Fadiev con la Sconfitta. Si vede anche una bottega di fotografo e qui nella vetrina sono esposte le fotografie di tutti i capi attorno a quella di Lenin.
La « fila » per i cioccolattini
Dopo, infissa al muro, vi è una vecchia targa con dipinti dei cappelli da signora e degli abiti come s’usavano nel 1914. E’ un’insegna di modisteria che ha saputo resistere, mentre il negozio e l’abitudine sono scomparsi. I muri di tanto in tanto sono tappezzati da manifesti di propaganda: argomenti predominanti sono il Papa e l’industrializzazione dell’U.R.S.S. Si vede la caricatura del Papa all’ombra dei cannoni delle Potenze capitalistiche puntati contro la Russia che lavora.
Poi comignoli o macchine in grandezze progressive per dimostrare lo sviluppo raggiunto. Ma scarsissima originalità nel gusto del disegno e dei colori. In altri negozi abbondano stoviglie, statuine, vasi e vasetti d’uno stile che era di moda prima della guerra. Attraverso quali trapassi, quali miserie e sangue queste cose da gente ricca sono venute a finire a questo sole pallido che filtra attraverso alle vetrate forate e incrinate da sassate o da proiettili?
Ogni tanto si passa vicino a degli spacci di generi alimentari che portano questa scritta: « Komunar », ma non hanno bisogno di insegna; si distinguono subito dalla coda di centinaia di donnette e di vecchi che attendono rassegnati il loro turno.
Ma sul marciapiede vi sono delle contadine, piccole speculatrici tollerate, che vendono del burro e attorno delle donne con bluse bianche, senza calze, e un cappelluccio sugli occhi che leticano sul prezzo. Mani scarne e pallide, occhi tesi nell’affanno, fronti dure e bocche mute: bisogna subire, tacere: guai lanciare un grido di rabbia. Tutta la mattina se ne va solo per fare la spesa, e in una famiglia, per poter vivere, tutti devono lavorare. Ma tra queste code per il pane e per il companatico (stranezza e grottesco del ventre umano!) ecco che ve ne è una più interminabile davanti a uno spaccio improvvisato di cioccolatini.
E mentre c’è chi terribilmente calcola se deve comperarsi un pane, ecco che si può vedere un negozio dove si vendono rari pesci cinesi di quelli dalle lunghe pinne, testuggini e uccellini canori, e le diverse e speciali qualità di mangimi che occorrono per essi.
Ci si trova accanto al monumento di Puskin; dietro alle spalle gli si apre un viale; di fronte, dall’altra parte della piazza, v’è una chiesa fitta di cupole celesti tempestate di stelle d’oro, incorporata nell’edificio rosa d’un antico monastero. Nell’aria vola una lanuggine bianca che viene dagli alberi del viale; sulle panchine, una folla stanca e un gruppo in piedi che ascolta un altoparlante che trasmette i discorsi del Congresso politico. Puskin appari quasi un intruso. Folla grigia, uguale: abiti poveri e vani sforzi di donne verso una parvenza d’eleganza. All’angolo della via un fetore acre ci investe: si pensa a una fogna scoperchiata; no, proviene dalle cucine sotterranee d’un « restaurant » di Stato a uso del popolo. Ecco i cittadini dell’U.R.S.S. al pasto: le tavole sono disposte anche accanto alle vetrate inmodo da metterli In mostra a chi passa per la strada. Volti curvi sotto il peso della « casquette » sul piatto nero di intrugli dietro, in piedi, altri che attendono un posto libero. Dalla porta esce un uomo dalla barba lunga e grigia, sbiadito negli occhi quasi bianchi. Sembra non fissi in alcun punto lo sguardo: barcolla, si domina, va via rasente al muro. Un tramvai si ferma, una ventina di persone si addensa per salire. Una donnetta dalla blusa chiara con una grande cesta riesce ad aggrapparsi, ma un operaio rossiccio e tarchiato le afferra il polso con forza:« No, tocca a me salire per primo. »La respinge e monta.
Eppure questi moscoviti a sentirli parlare hanno una cadenza cosi infantile, sdolcinata, ingenua, e non si sa capire quale demone ispiri loro la violenza e la ferocia.
Si passa davanti alle nuove costruzioni: il palazzo delle Poste e Telegrafi, una Banca, la sedo d’un giornale, l’istituto di Lenin. Niente di originale, la linea è razionalista, la tinta è grigia come il fango e tetra come la vita di questo paese. Ma il monumento ai martiri della rivoluzione è un fallimento in pieno. Fare una rivoluzione li questa specie, dove gli operai sono considerati gli aristocratici, per poi veder usare come elemento principale dell’opera un obelisco, con sotto una donna retorica quanto mai e un pulpito per gli oratori durante le cerimonie tolto a prestito dallo stile romanico!
I « clubs » degli operai
La scarsità di alloggi (ogni cittadino ha diritto a solo sei metri quadrati) ha imposto al Governo di costruire nuove case. Pertanto si rialzano di uno o due piani i palazzi patrizi; altrove si costruiscono grandi caseggiati per gli impiegati, perché metà della popolazione di Mosca appartiene a questa categoria dacché ad ogni attività privata s’è sostituito lo Stato. E si costruisce tanto che a volte si deve sospendere il lavoro per mancanza di materiale. I principali palazzi privati d’un tempo, che con le loro forme neoclassiche danno ancora respiro e sollievo, sono stati adibiti a clubs per gli operai, per i soldati o per la gioventù. E sulle facciate, come cicatrici sanguigne, stanno tese delle strisce di tela rossa con iscrizioni esaltative. Il grande palazzo dell’Opera è pure tutto bardato di rosso in occasione del Congresso politico.
Più su, nella piazza Lubianca, ecco la sede della polizia politica con annessi immensi edifici biancheggianti che occupano quasi un quartiere: tanto grande è la necessità di incarcerare. Folla fredda nelle code, nelle attese dei tranvai ; affannata nel passo, come sospinta da un incubo dietro alla schiena o astratta o sognante per lo strade. Indifferente sorpassa un corteo di soldati inebriati nel canto, incurante di veder un altro corteo di provvide crocerossine organizzate dallo Stato. Nessuno si ferma a vedere sfilare. Ma se passa un’automobile lussuosa di qualche straniero, ecco che certi tipi sogghignano con smorfie tra l’ebete e l’ubriaco.
E’ raro veder gente che si scambi il saluto o persone che camminino in compagnia. Se ci si rivolge a qualcuno per chiedere il nome d’una strada, questi finge di non capire e tira avanti;
oppure, dopo essersi accertato che dietro a sé nessuno lo osserva, si fida di rispondere, d’accompagnarvi egli stesso, chiede di quale Nazione siete, come va la vita nel vostro paese e se avete qualcosa da vendergli.
Tutto scarseggia. Qualche anno fa non era cosi; ma la nuova politica di voler in quattro anni costruire in Russia la più grande industria del mondo, costringe a esportare tutto per pagare macchinari e ingegneri fatti venire dall’estero. A volte la folla forma raggruppamenti strani; un uomo con le gambe mozzate cammina carponi; una donna che porta tra lo braccia un bottiglione verdastro; un uomo alto dal colbac gigantesco; dei cinesi lividi; degli usbechi; dei buriati coi loro sguardi nereggianti e i mantelli variopinti; dei giovani studenti con papaline di velluto verde ricamate d’argento, che paiono lussuose, ma vestiti di una semplice blusetta, di pantaloni consunti e i piedi scalzi nei sandali; una vecchia con merletti al collo e un profilo signorile tentenna tra berretti a visiera innumerevoli e fazzoletti rossi stretti al capo di giovanetto dallo gambe saldissime o nude.
Si passa per strade secondarie lungo case sconquassate con lugubri cortili: cancelli, ringhiere, muretti, finestre e facciate, tutto porta segni di violenza e d’abbandono.
Ma d’un tratto appare nel cielo l’oro delle cupole della cattedrale: di qui, giù da un declivio, la Moscova cinerea e i suoi ponti e, oltre, il meraviglioso incanto del Kremlino.
Una muraglia merlata tutta rosa chiude lungo il fiume la cittadella. Cuspidi acute verdastre si elevano dai torrioni e dalle porte sormontate da aquile d’oro, e tra i grandi caseggiati bianchi è tutto un fiorire di cupole e cupolette dorate o celesti di chiese Interne, tra lo sfavillio delle croci.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 10 settembre 1930