Qui Napoleone aveva voluto che i suoi medici studiassero quel processo di mummificazione per poterlo applicare anche su di lui quando fosse morto.
Nella mia giovinezza, di ritorno da una villeggiatura in Carinzia alla fine dell’estate, scendendo in treno per la valle del Fella verso Udine, nell’ora successiva al tramonto, ci si fermò ad una stazione che porta questo nome: Stazione per la Carnia.
Mio padre mi indicò un’ampia vallata che si apriva sulla destra e mi disse che là dentro si estendeva la Carnia, terra che generava gente tenace e ottimi formaggi. In quel punto il torrente Fella si unisce al Tagliamento, che scende dalla Carnia, le vaste ghiaie dell’uno si intessono alle vaste ghiaie dell’altro, è come un grande lago bianco dì sassi su dal quale si elevano imminenti i monti che fanno da quinte allo sfondo di altre montagne lontane, che apparivano contro l’ultima luce dei giorno.
Una profonda malinconia mi aveva preso in quel tempo quando mio padre mi annunciò che, entro a quella valle, vi era questa terra di cui non avevo mai sentito parlare. Non ho mai dimenticato quel mio momento di malinconia che non sapevo a quale ragione attribuire. Pensavo mi fosse dato dal senso della fine dell’estate, della fine di quella villeggiatura in un paese straniero, dal senso di avvicinarsi all’autunno, all’inverno, all’apertura delle scuole, dal senso del passare del tempo, della fine della mia giovinezza. Ma anche pensavo mi fosse dato dal senso che esisteva quest’altra terra al mondo, questa Carnia, questa terra sconosciuta per me e che mi risultava lontana, chiusa tra alte e informi montagne. In seguito, nella mia vita, pure vivendo nel Veneto, a cui appartiene questa terra, non ho mai avuto occasione di visitarla, non ho neanche mai avuto occasione dì conoscere qualcuno che in essa vi sia nato, sicché essa mi appariva sempre come una terra lontana e irraggiungibile. Avevo soltanto assaggiato i suoi formaggi grassi e profumati d’erbe montane e sempre mi risvegliavano il desiderio di vedere quei pascoli alpestri da cui maturavano, come un miele estratto dai fiori. Era per me come un angolo riposto della mia casa, come uno stambugio in soffitta che si sa che esiste, ma che non si trova mai il tempo dì andarlo ad esplorare. In fine, venne il momento stabilito e ho visitato la Carnia.
Si risale da Udine e la pianura verde e fluente presto si solleva in tenui colline che accolgono villaggi, chiese, castelli e ville e poi sorgono alti i monti: la grande cerchia di montagne, alcune ancora nevose sulle cime, che sono come la fronte umana di questa terra estrema d’Italia che si chiama la Patria del Friuli. Entrati tra i monti nella valle del Tagliamento, poco prima di arrivare alla porta della Carnia, vi è il paese di Venzone, cinto di mura medioevali grigie di roccia tolta alle montagne vicine.
Nella sosta, subito avvertono che è interessante visitare il duomo antichissimo e, nel tempietto attiguo, una raccolta di corpi umani mummificati che sono stati trovati nel cimitero. Mentre si attende che venga la custode del tempietto macabro, si visita il duomo grigio della stessa roccia delle mura e fresco d’ombra e si vedono sul pavimento due lastre tombali, una per un principe nordico con scolpita a rilievo una possente aquila posata ad ali aperte su di un cippo montano, e l’altra per un pellegrino venuto in antichi tempi dalla Russia per scendere a Roma. Questa lastra raffigura una mano impugnante il lungo bastone del romeo.
La custode era una donna rosea e pacata come destata allora dal sonno, aperse la porta del tempietto circolare e dentro, tutto attorno, vi era una grande vetrina con dentro, in piedi, le mummie ignude solo coperte ai fianchi da un pannolino bianco. La donna sapeva tutto di quei corpi: chi erano in vita, da quanti anni erano morti, come fossero mummificati in virtù di una muffa allignante nel cimitero, sapeva che Napoleone le aveva viste e aveva voluto che i suoi medici studiassero la ragione di quella mummificazione per poterla applicare anche su di lui quando fosse morto.
Parlava invero come fosse uscita allora dal sonno, seguivo le sue parole e osservavo ad una ad una le mummie in piedi, sorrette con uno spago attorno al collo fissato alla parete, sicché a poco a poco mi apparivano tragiche, come appiccate. La pelle aveva il colore di quella dei tamburi, ma era tesa solo aderendo alle ossa delle braccia, delle gambe e alle guance, mentre al petto e al ventre si accartocciava, come una carta che avesse avvolto un pacco. La donna diceva che pesavano appena dieci chilogrammi ogni una, il solo peso delle ossa, giacché dentro tutto si era polverizzato e solo sopravviveva quella pelle del colore di vecchio avorio, che in certi punti il tarlo aveva già roso.
I volti erano orrendi, attorno alla bocca socchiusa o aperta come per un grido disperato apparivano irti i peli dei baffi e la dentatura era sconnessa come nei vecchi di montagna. La custode diceva: “Questi sono marito e moglie, questa è uno giovinetta di diciotto anni, questo uomo era cieco di un occhio”. E difatti mentre un’orbita aveva le palpebre socchiuse, l’altra era tutta chiusa, come una finestra murata.
La sopravvivenza di quella pelle sul corpo favoriva pensare alla loro vita e alla loro morte soltanto nella presenza del volto, sebbene fossero tutti privi di capelli, ognuno aveva tra le labbra insecchite l’impronta di un lamento, di un urlo o di una parola. Queste mummie ignude, messe ritte nella loro custodia di vetro, simile a quelle custodie dove nei musei di storia naturale si conservano in una aria canforata animali impagliati o farfalle, mi accolsero nella loro posizione quasi di inchino al mio ingresso in Carnia.
Subito mi distrasse da esse l’aspetto vario e ampio del paesaggio. Su dalle ghiaie immense dei due torrenti che si univano, sì alzavano i monti e lontano altri apparivano, come alla fine di quel giorno della mia giovinezza. E mi ricordavo ancora di quella mia profonda malinconia, ma essa non risorgeva preso come ero dall’avidità di vedere questa nuova terra sempre attesa.
Finalmente visitavo una terra che era rimasta sconosciuta per me, pur essendo vicina al mio paese e dopo avere viaggiato per tutto il mondo. Entravo come in un ripostiglio segreto della mia casa, di cui sapevo l’esistenza, ma che non avevo mai esplorato.
Giovanni Comisso
da Milano Sera, 10-11/05/1950.
Immagine in evidenza: Ovaro nella Val Degano (foto di Ilario-FVG – Ilario Triscoli, Wikimedia Commons)