Con Michele dovevo andare a Barbiana, un posto di miei continui pellegrinaggi e anche un suo posto d’elezione. Avevamo rimandato il nostro appuntamento per la pandemia, poi in un suo messaggio di circa un anno fa mi diceva che c’erano state delle difficoltà, che avremmo dovuto ancora aspettare. Considero Michele un amico anche se non ci siamo mai frequentati fuori dai contesti di premi, festival o fiere letterarie. Non ce ne è stato il tempo perché la nostra conoscenza nata in occasione di un’edizione recente del Premio Ceppo (aveva già vinto nel 2006 con il racconto La bambina dagli occhi di vetro il Premio Ceppo Giovani), e poi rafforzata in seno al Premio Comisso, che Michele Cocchi si è aggiudicato per la sezione narrativa nel 2018 con La Casa dei bambini (Fandango, 2017), ha avuto altre poche occasioni. Quel libro mi era piaciuto molto, faceva parte di una bella terna di finalisti con i romanzi di Andrea Moro e Gabriele Dadati, e la sua vittoria era stata una sorpresa, un esito inatteso, come spesso succede al Premio Comisso, libero e imprevedibile come lo scrittore di cui porta il nome.
La Casa dei bambini è un romanzo “di frontiera”, un romanzo sui confini, sul dentro e il fuori, sull’infanzia e la sua Casa, sulla libertà e la paura, sul sogno e sulla realtà. Un gruppo di bambini crescono insieme in un orfanatrofio, quando usciranno e saranno adulti, questo passato non finirà mai di passare, nonostante la guerra civile, la violenza, il tradimento. Quell’infanzia – nessuna infanzia – si taglia via facilmente, è come una ferita mai rimarginata.
Michele Cocchi, pistoiese, classe 1979, psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza, sa di cosa parla e proietta la sua esperienza in un testo ai limiti della distopia per atmosfere e situazioni, fuori dal tempo storico. Un libro pieno di dolore ma anche di visione.
Il romanzo successivo Us (Fandango, 2020) racconta ancora una storia di ragazzi, ragazzi che si consegnano alla solitudine, ma la loro sfida rimane attraversare i drammi della storia, nient’altro che il nostro umano cammino (Us siamo noi) verso una possibile riconquista di civiltà. Protagonisti sono sempre bambini e adolescenti orfani di tutto ma alla ricerca di un alfabeto elementare da condividere.
Michele Cocchi è stato un cantore dell’età giovane in tutta la sua complessa verità, una voce unica e consapevole dello sforzo di mettere sempre in relazione quella ricchezza con le crepe della storia. Oggi tutti noi restiamo orfani di quello sguardo preciso sull’età ingrata della giovinezza.
Non so cosa ci saremmo detti a Barbiana, io e Michele, lo avrei accompagnato, come faccio sempre quando vado a Barbiana con amici, davanti alla piscina che Don Milani aveva fatto costruire perché i ragazzi imparassero a nuotare; ecco adesso so che davanti a quella piscina dipinta di blu, di piccole dimensioni, scavata nella terra e nella pietra, Michele avrebbe riconosciuto il senso del suo lavoro di teraupeta e insieme di scrittore. Sapeva che a Barbiana avrebbe trovato se stesso. E anche io adesso so che ti potrò ritrovare seduto sull’orlo di quella piscina guardando il profilo dell’Appennino per parlare di orizzonti e di scrittura, della nostra fragilità di adulti e di bambini.
Ci mancherai molto, caro Michele.
Benedetta Centovalli
Immagine in evidenza: Chiesa di Sant’Andrea a Barbiana (fonte: Fondazione Don Milani)