Ho ritrovato un mio amico, un folle di Dio, come erano un tempo i profeti, come lo sono sempre gli artisti. Sapevo che lo era, ma non fino alla perfezione. Non faccio il suo nome, perché per la sua modestia mi serberebbe rancore. E’ un combattente dell’altra guerra che ha sostenuto con valore nelle trincee del Carso e ne ha riportato il compiacimento di quella vita a contatto con la terra, che si riallacciava alla sua giovinezza, per ricrearlo contro le mura di vecchie chiese o di antichi palazzi, su alto verso le volte, verso i soffitti a scoprire mirabili affreschi e a restaurarli.
La nostra città: Treviso, egli la conosce casa per casa, chiesa per chiesa, ma la conosce fin dentro, tra le commessure delle pietre. Treviso nel medioevo era una città tra le più gaie d’Italia, e a questa gaiezza della vita corrispondeva un gusto da fiera, da festa, da Carnevale di affrescare le facciate delle case di fregi variopinti e fantastici.
Poi vennero anni tristi e tutto fu incalcinato. Egli ricompose molti di questi affreschi e ne raccolse la testimonianza prima che venissero distrutti dalle cieche esigenze di ammodernare la città. Nelle vecchie chiese si deve a lui la scoperta di affreschi che arricchirono il nostro patrimonio d’opere d’arte. Si può immaginare quanto egli ami la sua città conoscendola nelle midolla delle sue case preziose e quanto egli abbia sofferto quando questa guerra vi portò la distruzione dalle radici.
Da quel giorno, dal sette aprile di quest’anno, egli è là sulle macerie, come tra le sue trincee carsiche ricreate viventi.
L’ho rivisto su di un cumulo di pietre, pallido e macerato in volto, ardente nello sguardo mentre allontanava una donna del popolo che voleva portarsi via un tavolone del quattrocento dipinto; ella ribatteva che lo voleva per farsi da mangiare, e lui continuava a dirle: — No, non posso, perché mi occorre, l’ho fatto raggiustare a posta. — Sapeva che sarebbe stato inutile dirle: — No, perché del quattrocento.
Il cumulo di pietre era di una delle più belle case di Treviso, il palazzo da Noale, che era per giunta una succursale del museo, e stanze e saloni erano tutti ammobiliati con rarissimi esemplari del quattrocento, del cinquecento e del settecento. — Là sotto. — mi disse, chiamandomi a sé, e mi indicò delle travature infrante, — vi sono ancora due Longhi. — La pioggia cadeva fitta e fremeva. Lo seguii per gli atri e per le poche stanze sconnesse dove aveva raccolto quello che aveva potuto ricuperare. Sedie dorate, cassapanche scolpite, stipi, immagini di santi in legno, tutto ridotto in schegge, in frammenti, schiacciato, spezzato, sconquassato, ma pezzo per pezzo da lui raccolto e ordinatamente disposto, come ossa di morti ritrovati dopo molti anni su di un terreno di battaglia.
Facendomi entrare in un’altra stanza mi indicò un suo operaio che sotto la sua direzione già aveva ricongiunto i frammenti e ricostruito un mobile stupendo uscito dalle mani dei nostri artigiani dei secoli gloriosi. Si chinò per terra: — Guarda queste portelle di uno stipo del quattrocento. Io avrei lavorato tutta la mia vita per poterlo avere — mi disse questo folle di Dio. — Guarda come è stato ridotto e dopo la distruzione della bomba non ti dico quello che ho fatto per salvare questi pezzi perché non li portassero via come legna da ardere. — E assunse il furore di un cane a cui si tenti portargli via l’osso che rode.
La grazia sublime era tra le sue mani: il legno era inciso a fuoco, istoriato a sognanti scene d’amore che non vidi più belle: nudi amanti sotto alberi fioriti. Forse le cortigiane di Carpaccio vi tenevano i loro belletti, i loro profumi. Mi fece vedere che era legno di cipresso e che dopo tanti secoli odorava ancora. Odorava come l’aria della Toscana. Aveva salvato tutti i frammenti e sarà ricostruito. Giù negli atri vi erano pezzi di marmi scolpiti e accanto sulle pareti erano scritti i nomi delle case distrutte dalle quali erano stati ricuperati.
Sembrava mi indicasse feretri racchiudenti amici morti: — Quelli sono della casa gotica sulla Riviera, ricordi come era bella? — Apparivano pezzi informi. ma come egli ne raccoglieva qualcuno e lo illustrava subito vi si vedeva la perfezione di una foglia o la bellezza di un intreccio.
Era irato contro il destino: le bombe erano cadute la maggior parte sulle case più tipiche del medioevo trevigiano, sul museo, sulla cattedrale guastando gli affreschi del Pordenone, sulla Loggia dei Cavalieri, sul Palazzo dei Trecento, risparmiando invece pessimi edifici moderni attigui.
La pioggia entrava attraverso il tetto squarciato, luccicavano gli ori terrosi dei frammenti di sedie del settecento e ripensavo al vecchio abate Luigi Bailo, preposto al museo, che anni addietro, prima di morire, mi disse profeticamente, mostrandomi quelle stesse bellezze da lui raccolte: — Sì, sì, ma Attila ritornerà a Treviso.
La città e distrutta dalle radici, deserta d’abitanti; le chiare acque che piacquero a Dante furono per lungo tempo torbide di detriti, ma questo folle di Dio non si è dato per vinto. Da quel giorno egli è tra le macerie delle case mirabili a raccogliere i frammenti e a contendere le travature istoriate ai ladri per farne fuoco. Su di una facciata, la sola parte rimasta intatta di una piccola casa, egli ha intravisto le orme delle bifore originarie e senza pensare alla casa che non esiste più ha riaperto le antiche finestre chiudendo le recenti.
Ma, meraviglia maggiore, colpita e abbandonata una vecchia caserma, uno di quei tanti conventi confiscati durante le guerre napoleoniche, ha potuto finalmente penetrare nella chiesa, fino a poco tempo fa intoccabile perché adibita a deposito di vestiario militare, e scrostato l’intonaco ha scoperto stupendi affreschi di Tommaso da Modena, di Da Zevio e di pittori toscani del quattrocento. La sua ira fu pacificata: se tanto fu distrutto qualcosa di insperato fu ritrovato.
La sua follia sta in questo: mentre tutto crolla, mentre tutti aggiungono distruzione a distruzione nel cieco impeto della forza scatenata senza un’ idea, una fede, un sentimento, egli ha la sua idea di servire l’arte, la sua fede in essa, il suo sentimento d’amore per la città che fu bella e che vuole risollevare nella sua bellezza. Egli non pensa ad un domani in cui questa città può essere ancora attraversata dalla furia della guerra, egli raccoglie, ricompone, ricostruisce e riscopre le belle immagini che erano state ricoperte dalla cieca furia di altre guerre.
Io lo so quello che sarà pronto a fare se il pericolo di demolire ancora gli si serrerà intorno; alto sul cumulo di macerie, pallido, emaciato, gigantesco come sullo spalto della sua trincea Carsica egli sarà la a gridare — Non toccate queste pietre. — E preferirà morire piuttosto che abbandonarle. Ma che Dio lo protegga.
Giovanni Comisso
Il Corriere della sera, 10 dicembre 1944