Lo sperimentalismo veneto tra lingua e dialetto

Secondo appuntamento con “Scrivere in Veneto. Un tracciato provvisorio tra ieri e oggi”.

Dopo “Il territorio come valore, storia, punto di vista, scrittura“, Saveria Chemotti approfondisce il tema dello sperimentalismo veneto.

Per abbozzare un quadro provvisorio della narrativa veneta tra XIX e XX secolo è indispensabile, prima di tutto, procedere lungo linee prospettiche, compiere indagini, riscontri, riletture, per verificare se esista, topograficamente e anagraficamente, un rapporto tra ieri e oggi, per capire se la letteratura di “oggi” abbia perduto o cancellato radicalmente tutti i caratteri di quella di “ieri”, se la frattura tra le generazioni sia una voragine insormontabile o se invece si possano rintracciare intersezioni e interrelazioni, segnali di una continuità che permane e agisce, sia pure nella forma più sotterranea, «carsica».

Non si tratta ovviamente di assemblare dentro un’unità meramente “cronologica”, una galleria policroma e polifonica di esperienze individuali, esposte a modificazioni e ripensamenti, realizzando una silloge grottesca, ma ipotizzare una campionatura essenziale delle strategie narrative e stilistiche più originali che non sia riduttiva rispetto ai percorsi dei singoli interpreti.

La realtà veneta infatti prima ancora di definirsi come territorio si qualifica come cultura; la terra d’origine vale come patrimonio sedimentato di valori che estrinseca una sua peculiare verità che, come scriveva Guido Piovene in una pagina famosa del suo Viaggio in Italia (1957),

«nulla ha a che fare con il sentimento nazionale né per associazione né per contrasto» essendo «una verità in più, di natura diversa», una sorta di «persuasione fantastica che la […] terra sia un mondo, un sentimento ammirativo, e quasi un sogno di se stessi, che non ha l’eguale nelle altre regioni d’Italia […]».

Se, infatti, osserviamo da vicino l’intero panorama della letteratura veneta del Novecento, ci troviamo dinanzi ad alcuni elementi di incontrovertibile originalità, nel numero degli autori, delle opere e nelle tipologie tematiche e stilistiche rispetto ad altre letterature regionali.

Nessuna regione, infatti, può vantare un numero così ricco ed eterogeneo di narratori che in modo assortito, ma non equivoco, considerano il Veneto come terra d’origine, punto di partenza, di fuga o di ritorno:

«in nessuna realtà come nel Veneto gli scrittori hanno registrato i rapidi e inquieti mutamenti che hanno contraddistinto, la storia della […] regione. C’è stata non solo l’apparizione di nuove tematiche, ma anche un ripensamento degli stessi strumenti espressivi. Un primo sintomo di questo fenomeno è la grande diversità che si nota tra gli scrittori della generazione precedente […] e gli scrittori che si formano successivamente.»

Lo spartiacque degli anni Sessanta è, a tale riguardo, un passaggio importante perché segna l’affermazione di una nuova sensibilità e di nuove tematiche che si plasmano a ridosso dei mutamenti culturali e sociali e che riflettono, in modo variegato, le modificazioni strutturali dell’ambiente in cui lo scrittore attinge le sue storie, che non è quello delle grandi città con le sue élites tradizionali.

Del resto «una delle contraddizioni che permane nella regione è proprio l’assenza della metropoli vera e propria, intesa come fornitrice di servizi e insieme di bisogni, capace di esercitare una funzione direttrice sul territorio e di dare senso e unità ai fenomeni che vi si verificano. Al contrario di quanto avviene in altre regioni, nel Veneto prende fisionomia l’espandersi di una città «diffusa» che s’incunea nella campagna, […] manca […] una città che per ruolo primario, per presenza di case editrici, riviste, giornali ecc. raduni gli intellettuali e gli scrittori» come a Milano, a Roma, a Firenze o a Torino. Dopo «l’oscuramento» di Venezia, del mito della Serenissima, «nessun altro centro veneto consegue un’egemonia culturale capace da consentirgli definizioni di ampio respiro o di elaborare orientamenti comuni.»

Dal punto di vista del loro insediamento gli scrittori veneti costituiscono, così, una singolare «galassia dispersa» tra Vicenza, Treviso, Padova, Rovigo, Asiago, Belluno, ma anche Venezia ritrova una sua collocazione fuori dalle ombre lunghe in cui era stata sacrificata. Una pluralità di scenari dentro un orizzonte frastagliato, ma a suo modo unitario, che non ostacola l’invenzione di atmosfere e di forme che, pur nella tipicità delle singole opere, diventano elemento costitutivo e fondante di quello «sperimentalismo veneto» che è la cifra più originale di una produzione letteraria che pone la questione del “come” raccontare sullo stesso piano di quella del “che cosa” raccontare, attingendo ai registri polifonici della scrittura «per dar voce insieme al gioco e al dramma, all’intersecarsi delle classi, alla storia e alla cronaca».

Molti tra questi sono diventati giornalisti a tutti gli effetti, inviati speciali e collaboratori di testate giornalistiche nazionali e locali, da Buzzati a Piovene a Parise a Chilanti a Berto a Cibotto a Camon a Barbaro, per citare solo qualche nome.

Grandi viaggiatori, scrive Antonia Arslan, proprio perché inguaribilmente attaccati al loro paese, alla loro piccola patria.

In quest’ottica il dialetto non appartiene a un limbo congelato della memoria, ma è un organismo vivo, mosso, è deposito reattivo perché ha una sua originalità espressiva; è allo stesso tempo luogo di competenza linguistica e di conoscenza storico-culturale. Le storie che si raccontano sono dentro le parole perché le parole hanno una propria valenza testimoniale, documentaria e comunicativa e quindi evocativa e creativa:

«morendo una lingua non muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe cose.» (Luigi Meneghello)

Il linguaggio infatti serve a scavare nelle cose, non a mistificarle: non si procede quindi nella direzione di facili effetti bozzettistici e caricaturali o nell’aneddotica privata, di maniera, con l’intento di raffigurare un mondo bloccato al tempo dell’infanzia e dei filò.

Ci si riappropria di una lingua che è espressione irripetibile di una interiorità collettiva dimenticata, strumento di verifica sociale e storica per trasportare all’interno degli avvenimenti narrati la «sgrammaticata grammatica» dell’oralità.

Così nelle opere di Neri Pozza, di Scapin, di Meneghello, di Pascutto o di Chinol, la memoria diviene il luogo inventivo primario, il serbatoio referenziale e fantastico e il dialetto diviene «forma del pensiero», storia di una città o di un paese «in contrappunto con la cronaca familiare, i suoi volti, i suoi gesti».

Certo il rapporto, controverso e discusso, tra lingua e dialetto interessa, in forma differente, molti altri scrittori.

Comisso «aveva il terrore dei dialettalismi nella scrittura, pur parlando un bellissimo dialetto borghese trevigiano» (Naldini);

Buzzati scrive in un italiano senza inflessioni dialettali, e si diverte piuttosto a giocare su un registro di «compresenza di linguaggi», di mimesi sapiente di gerghi specializzati; Parise afferma testualmente: «non ci tengo molto. Non saprei scrivere in dialetto né una riga né una poesia». Eppure il registro basso della sua scrittura, una certa voluta apparente sciatteria, danno ragione a Pozza quando osserva che è proprio nelle sue costruzioni sintattiche, nelle «forme del suo “parlato” più stringato e immediato» che si ravvisa quasi una trascrizione dal dialetto; ed è in questo dialogato colloquiale così tipicamente veneto, nella frantumazione della sintassi comissiana, nel tono giornalisticamente «neutro» di Buzzati, che si possono trovare gli antecedenti di quella veneticità sotterranea che trasforma la lingua nazionale a livello di strutture e di sintassi piuttosto che di lessico, producendo una lingua che non è dialetto ma neppure italiano standard, e che è poi quella usata in genere dagli scrittori che non tentano l’impasto esplicito col dialetto.

«La letteratura veneta […] ha qualcosa di periferico rispetto alla letteratura italiana e alle sue centrali ideologiche» sottolineava ancora Piovene nel 1973: «una eccentricità che prolunga l’antico convincimento di una differenza che si esprime anche come difficoltà di ammettere il primato di altre capitali della cultura. È letteratura di provincia, certo, ma «non provinciale, almeno nei suoi esiti migliori.»

«Il Veneto è anche un sogno letterario, un’accumulazione narrativa opera dei suoi scrittori. E di poche aree regionali italiane si potrebbe dire, quanto di questa, che possiedono una “linea” letteraria.» commentava qualche anno dopo M. Isnenghi.

 

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