Andavo in campagna, con mia madre, durante le vacanze di Pasqua e quelle d’estate. Ci attendeva alla stazione la carrozza chiusa; dal finestrino si vedevano i colli verdeggiare e tutti i fossi splendevano di primule e di fiorellini viola; si sentiva l’odor di sudore del cavallo che trottava, frammisto a quello del cuoio accaldato: le prime rondini passavano e ripassavano rasenti alla strada. Lasciata la strada maestra, appena imboccata la stradicciola che portava a Caodivilla, il cavallo prendeva il galoppo nonostante la salita, eccitato dal desiderio della stalla. Nel silenzio dei campi, il fragore delle ruote era subito avvertito dai figli dei contadini e dalla serva dell’ospite che correva subito ad annunciargli il nostro arrivo e a versare il riso nella pentola in bollore. Tutti i ragazzi erano sulla strada davanti all’arco d’ingresso del cortile, per darmi il loro saluto e le loro madri pure, per sorridere a mia madre, che portava ogni volta grembiulini, cuffiette e fasce per gli appena nati e per i nascituri. Il vecchio ospite, amico dei miei nonni, ci attendeva curvo, con la sua barba bianca, gli occhi dolci e lagrimosi, appoggiato al suo bastoncino di ebano, e la voce commossa gli tremava nel saluto. Attraversavamo il giardino, dove le prime farfalle svolazzavano tra i fiori; domandava del viaggio, dei parenti, degli amici: la conversazione si animava e io approfittavo per scappare via a salutare i miei amici contadini.
La loro casa aveva una lunga stalla col bestiame occhieggiante appena s’entrava, di sopra l’alto fienile arieggiato da oriente a ponente, l’ampio cortile con la stalletta per le pecore e il baracchino per i maiali, poi il letamaio, il pollaio, l’orto e i coni dorati dei pagliai. Pietro e Rosa erano i vecchi capi della casa, vivevano con loro i tre figli: Florindo, Angelo e Giovanni, poi veniva una ventina di nipoti dai venti anni ai pochi mesi, maschi e femmine. Pietro decideva i lavori, aveva le chiavi delle dispense, teneva nota delle spese e s’occupava solo delle fatiche leggère: scartocciare le pannocchie, la sera, sotto la tettoia (e le ragazze cantavano coi giovani delle case vicine venuti ad aiutare), governare il bestiame, mungere e fare formaggi e il burro. Attiguo alla cucina v’era uno stambugio fresco, illuminato da una piccola finestra contro cui stava la tavola di lavoro: qui con le sue grandi mani nodose dava forma rotonda ai bianchi pani di burro e poi con recondito orgoglio, finita la manipolazione, vi imprimeva i segni del suo sigillo dall’orlo a petali di margherita e nel mezzo la sigla di Cristo con due pi maiuscole: Pietro Pandolfo. Altra sua mansione era alla sera dopo cena di intonare il Rosario. Finito l’ultimo boccone, prendeva la sedia, la poneva al centro della cucina, s’inginocchiava, tutti facevano lo stesso,
Kyrie, eleison.
Christe, eleison.
E il coro rispondeva. Ma verso la fine c’era sempre qualche ragazza che trattenutasi invano scoppiava a ridere. solleticata dal vicino, e allora subito Pietro, stretto in mano il suo coltello da tasca, ammoniva e imponeva il silenzio, battendolo ripetutamente sulla spalliera della sedia. La vecchia Rosa aveva cura del pollaio. Le tre nuore si alternavano quella della cucina. Florindo, il più anziano dei figli, badava alle bestie, s’intendeva delle loro malattie, le assisteva ai parti, ammazzava i maiali, conosceva le dosi per fare i salami, tosava le pecore. Giovanni nelle soste dei lavori aggiustava i carri, gli aratri, costruiva i rastrelli e le parti in legno delle falci e poi faceva gli zoccoli per tutti. Angelo sapeva fare solo il contadino, era il vero uomo di fatica e null’altro. L’ultimo dei suoi figli, Marino, era un povero scemo, che correva sempre per la strada sbattendo gli zoccoli uno contro l’altro mugolando con le bave alla bocca: doloroso fastidio di sua madre, che doveva, a tredici anni compiuti, continuare a dargli il mangiare in bocca come quando era bambino. Filomena la moglie di Florindo, alta e scaltra nell’occhio, era la medichessa della famiglia: aveva rimedi per i mali, toglieva le spine ai ragazzi, faceva impacchi agli uomini se si storpiavano sul lavoro e grandi massaggi con l’olio per i dolori delle donne e dei vecchi. Poi alla sera, quando nella stalla si faceva il filò, era lei che raccontava storielle, favole e indovinelli. Le altre donne non avevano sapienze particolari: tutte sapevano accudire ai lavori secondari dei campi, sapevano allevare i figlioli e fare contenti i loro mariti. La cucina spettava a loro una settimana per turno. Ai pasti solo gli uomini avevano diritto di sedere alla tavola; le donne e le ragazze mangiavano di fuori nel cortile o dietro al focolare ostruito dalla grande pentola della polenta.
La famiglia Pandolfo era come un piccolo villaggio: vi era il capo con funzioni amministrative e religiose; e, suddivise secondo il talento, le piccole arti richieste dalle necessità; poi il numero era grande, la salute potente e costante la buona armonia. Tutto il giorno dal mattino alla sera me ne stavo con loro: li seguivo nei lavori sui campi, aiutavo a rastrellare e a vendemmiare, ritornavo disteso sopra gli alti carri di fieno, spesso mangiavo con loro; e poi, richiamato dalla serva dell’ospite per la colazione, sedendomi a tavola, davanti a mia madre, il vecchio ospite, accorgendosi che non avevo molto appetito, mi diceva sorridendo: «Eh, si vede che hai già mangiato dai Pandolfo; cosa è che avevano di buono?». Polenta e radicchio, polenta e formaggio, polenta e salame, e alle feste solenni polenta e pollastrelli in umido. Per loro rappresentavo il cittadino, ed essi per me la natura, la terra, la vita determinata dal sole, dall’aria, dalle stagioni. I ragazzi si divertivano a umiliarmi nella lotta al confronto della loro forza, io mi rifacevo con l’incantarli a raccontare delle grandi città, delle invenzioni, dei misteri svelati dalla scienza… Ma Filomena, che mi ascoltava con un nascosto sorriso, quando avevo ben parlato veniva fuori con la sua voce calma e furba a propormi: «Beh vediamo, lei che ne sa tante, se sa spiegare questo indovinello!». Giallina nella pelle del volto, asciutta e rugosa, acuti e ironici i suoi piccoli occhi dalle iridi grigie, ella mi diceva:
Bigoli bagoli i va in campagna,
Bigoli bagoli i se sparpagna.
E io non riescivo a indovinare, tra le risa di tutti, che erano i pulcini. Tra i ragazzi che avevano quasi la mia età, Ernesto era quello che più si accompagnava a me nel giuocare. Si giuocava alla guerra. Radunavamo, la domenica dopo i Vespri, i ragazzi dei dintorni, io comandavo una squadra, lui un’altra, la mia era degli italiani, la sua degli austriaci; avevamo bandiere e bastoni tagliati a guisa di spade, un fienile ci serviva da caserma, ci si proponeva un piano di conquista: la cima del colle dei Vaccher o di quello delle Soppe: si partiva per strade diverse e vinceva chi vi piantava prima la bandiera, ma, una volta piantata, poi succedeva la vera lotta a colpi di bastone, e, rotti e perduti i bastoni, a graffi, a pugni, a pedate fino a quando sopraggiungeva la sera, e allora si scendeva, strappati nei vestiti, fieramente malconci, terminando tutti concordi in avidi furti di frutta nei campi che s’attraversava. A ogni stagione che ritornavo, col crescere della nostra forza, queste battaglie sulle cime di quei colli ventilati dal Piave vicino si facevano sempre più accanite e violente.
Poi venne la guerra, ci colse sui diciannove anni. Mi trovavo d’autunno a Caodivilla: un telegramma mi richiamò a casa per presentarmi subito al reggimento. Ernesto mi accompagnò alla stazione, nella notte, con un fanalino appeso a un bastone. Le ombre delle colline apparivano contro un vago chiarore del cielo. Da quella notte tutto doveva modificarsi e crollare. Gran parte dei miei amici morì, la bella famiglia armoniosa si sciolse e si disperse. Anche i miei compagni di giuochi partirono per la guerra, chi nei granatieri, chi negli alpini. Venne la ritirata al Piave. Il ponte di Vidor spezzò le sue arcate sotto le mine. Dalle colline di Soligo. le batterie austriache cominciarono a demolire casa per casa. Il vecchio ospite che da ragazzo aveva già visto scendere altra volta gli Austriaci e nel ‘48, durante la battaglia di Cornuda, non aveva abbandonato la sua villa, convinto che la nuova guerra fosse come quelle d’un tempo, non volle fuggire e fu ucciso. I contadini fuggirono, chi profughi in Sicilia, chi verso Padova. I vecchi capi di casa non potevano adattarsi alla nuova vita e morirono presto. Dal Grappa vedevo ogni giorno le fumate dei colpi che arrivavano ostinati su Caodivilla. Il palazzo, le case, le stalle arsero e crollarono. Il colle dei Vaccher e quello delle Soppe erano diventati due nostri osservatori importanti: notte e giorno venivano battuti e sconvolti. Durante la battaglia del giugno scomparvero nel fumo battuti e ribattuti dai grossi calibri. ma rimasero nostri.
Finita appena l’ultima battaglia, scesi dal Grappa e accorsi a Caodivilla come a una meta amata e perduta. La stradicciola. che percorrevamo in carrozza chiusa (e il cavallo prendeva il galoppo sull’erta al desiderio della stalla), era tutta cosparsa di bombe, di fucili e di elmetti, aperta qua e là da ampi imbuti di granate. Nel giardino del palazzo le aiuole avevano fiorito da sole: soltanto qualche pezzo di muro si reggeva contro il cielo che rischiarava ogni angolo degli interni. Vicino alle scale trovai ancora sul bianco della calce tutti i miei aumenti di peso, di anno in anno, scritti da mia madre. Rovistai tra le macerie: non mi fu possibile trovare che pentole rotte e brani di stoffa marcita. L’erba cresceva tra le macerie del tinello.
Corsi alla casa dei Pandolfo: non rimaneva in piedi che l’arco d’ingresso del cortile, con la piccola finestra della stalla, quella da cui il vecchio Pietro, rialzando le sopracciglia, guardava con occhio sospeso l’avvicinarsi dei temporali spiando se v’era minaccia di grandine per i bei campi rigogliosi, e le donne dalla porta della cucina bruciavano l’olivo sulla brace ardente.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 25/08/1931
Immagine in evidenza: © Redazione Cultura – Carrozza su strada di campagna