Il porto di Genova

Il porto di Genova

Il fondo dei vicoli riluce di umido; da una porta all’altra passano le voci con una cadenza di canto; su, la biancheria distesa sventola come un gran pavese. Marinai stranieri camminano in gruppi coi vestiti domenicali dei loro paesi; l’uomo che ha ritrovato la sua donna dopo mesi di navigazione la porta a passeggio stretta al suo braccio. Dovunque odora di cucina come a bordo delle navi; le case si sovrappongono e si stringono come vapori in disarmo. Si sale e si scende e l’energia d’ogni passo si tramuta in felici pensieri. Ad una svolta l’acuta cuspide d’un campanile coperta di ceramiche bianche, verdi e rosse ci richiama di scatto le porte decorate delle città marocchine, di là dal mare. Si sale e si scende: facciate rosa e gialline e persiane verdi dei quartieri in declivio con lo stesso gusto per i colori distribuiti sui bordi dei velieri. Una lunga onda grigia rotola e si sfascia sulla breve spiaggia sotto alle casupole inestricabili. I ragazzi dalle nude gambe di muscolo, come composte di corda, parlano a voce ardente di cifre: — Beppin, à guadagnò tanto…

Panorama del Porto antico di Genova (Alessandro Vecchi, Wikimedia Commons)

Ecco la Darsena, piccola come una piazzetta di villaggio eppure sufficiente al suo tempo per imporre il nome di Genova in ogni angolo utile del mondo. Piccola e vecchia, ora che il porto si è esteso per una decina di chilometri, essa tuttavia si presta ad accogliere qualche piroscafo adatto ai suoi moli, con l’estro d’una nonna che sia stata già l’anima della casa e voglia tuttavia adoperare in minute faccende la poca energia che le rimane.

Palazzo Reale, Genova (Wikimedia Commons)

La domina il belvedere del Palazzo Reale con la veranda turchesca di legno giallo, simile ad un passionale segno d’amore. Di là, sulla destra, vi è il porto del vino. Porto questo che, con le sue botti grandi e piccole dai fondi rossi o blu, allineate sulla banchina, e coi velieri attraccati irti di alberature, fa sopravvivere la poesia dei vecchi traffici avventurosi. Vicino al vino, il pane. I silos aspirano il grano dai piroscafi, poi sotto ad un oscuro portico da condutture in pendio scendono i sacchi ripieni. I facchini li afferrano e li caricano sui carri ferroviari in attesa. Facchini che hanno un nome: i Caravana, un capo: il Console, uno statuto, una tradizione secolare di onestà scrupolosa, un costume che li distingue, fatto d’un gonnellino attorno ai fianchi e d’un cappuccio aderente al capo che scende fino alle spalle, e ognuno ha il suo soprannome: Rubens, Cirillo, Spartaco o Gerione. Tra arco e arco, nelle brevi luci, i volti grifagni stretti nei cappucci assumono espressioni di resistente fierezza. Le chiatte tozze assembrate fitte come i sampans d’un porto cinese si sommuovono e si urtano all’onda d’un alto piroscafo bianco che arriva tutto fresco di oceano. Sacchi di fosfati, casse di cellulosa, botti di acidi, balle di cotone e di pelli, i binari si biforcano e si moltiplicano, la strada sorpassa i binari, i caseggiati si sovrappongono seguendo l’anfiteatro dei monti, l’urlo d’una sirena rompe il brusio degli aspiratori dei silos, il picchiettio dei martelli sui fianchi dei piroscafi in bacino e lo stridore della fiamma ossidrica sulle lamiere di quelli in demolizione.

Il Ponte dei Mille è vicino. Il palazzo è di costruzione recente. Invero a vederlo non dà il senso delle partenze per oltreoceano. Oh, quanta più anticipazione di volo nelle aeree torri della porta di Sant’Andrea! Ai vertici non alti pinnacoli con bandiere al vento, ma incomprensibili vasi stagnanti. Ma non conta: sono pronti i transatlantici, uno è in arrivo l’altro è in partenza, una folla rasenta l’altra. Ecco, una famiglia straniera coi ragazzi che s’inebriano a leggere tutte le diciture che incontrano e battono i piedi sulla terra come per goderne della consistenza dopo tanti giorni di mare. I grandi signori, dai vestiti sportivi e dalle belle valigie, esperti del giro del mondo salgono flemmatici nelle automobili come scendessero da un albergo per passare ad un altro, e l’umile gente vibra negli occhi. Le donne parlano subito del mal di mare e delle grandi città vedute; le chiome strette in veli annodati dietro alla nuca, assumono pose da ricche signore, altre piangono e sorridono. Gli uomini dai grossi pollici modellati sulla vanga, con l’entusiasmo dei coraggiosi nel volto, scaricano e accumulano casse e sacchi; le donne si siedono e i bambini subito si mettono a giocare come nei cortili degli asili. Questi arrivano, questi ritornano. Dall’altra parte, ecco, la folla delle partenze. Il padre elegante, già esperto di traversate, indica la strada al giovane figlio che s’inizia al commercio con la terra dei suoi sogni. Dal berretto alle scarpe egli è tutto nuovo e nel volto pallido e acuto gli battono le ciglia sugli occhi come abbagliati da riverberi. Donne alte e snelle con le pellicce sulle spalle fumano sigarette in lunghi bocchini neri e d’oro, numerando le proprie valigie. Venditori di limoni, di seggioline pieghevoli, di cappelli di tela bianca, di specifici contro il mal di mare rivolgono inviti affettuosi. La polvere calpestata ha un valore umano. Raccomandazioni, lagrime silenziose e addii, la sirena urla il suo richiamo, il cielo si inombra di grandi nubi elevate e la città in parte s’oscura restando così fissata indimenticabile per i sogni e per la nostalgia, una volta in terra lontana. Altrove la chitarra e il canto d’una donna sciancata tormentano o consolano l’anima dei marinai stranieri appoggiati alle battagliole di altri piroscafi. Alhama-Glasgow, Cabo Villano-Montevideo, Fushimi Maru-Kobe. Le monete gettate risuonano sulle pietre.
Attraversiamo il porto, di momento in momento che si avanza i vari ponti si evolvono come i petali d’un grande fiore, e le prue dei piroscafi accostati si succedono, crescono, appaiono innumerevoli ed incredibili come fossimo in un teatro dalla scena girevole affascinante di sorprese. Fumo che si sbanda al vento, acque che fremono, picchiettio di martelli e l’appello sconsolato dei catrai, i venditori di bibite e di cibo che arrancano su piccole barche tra una nave e l’altra.

Procediamo con la barca a motore verso il centro: le navi stanno fitte ad anfiteatro; tra il nero, il bianco, il grigio splendono chiazze rosse di minio, e rasente alle acque il nero lucido delle chiatte. I nomi messi sulle prue a volte assumono toni romantici: Dottor Paolo, Giorgio Ohlsen, Bacicin padre; Adriana, Lina Campanella, Carmine Filomena, questi nomi di donna sono cavalleresche offerte fatte dagli armatori alle proprie mogli. Si costeggia un muro corroso dal salso, ma su d’un pezzo di calce rimasto si vede scritto col catrame a grandi lettere, forse da qualche ragazzo, il nome della dominante dei suoi sogni : «America»! Ci raccontano d’uno che faceva il picchettino ed ora è armatore con una decina di navi proprie, e se ripassa tra i moli non sdegna il saluto dei vecchi compagni; e d’un altro che da ragazzo appiccicava francobolli alle lettere in uno scagno e ora ha una ottantina di milioni. Genova col suo mare offre di questi colpi di fortuna, uniti sempre al tenace lavoro e all’ardente coraggio.

Basilica di Santa Maria Assunta di Carignano, Genova (Luca Dea, Wikimedia Commons)

Qui vicino ai grandi bacini di carenaggio l’assordo dei lavori s’intona nelle concavità massicce; le gradinate e gli archi le fanno rassomigliare ad antichi circhi. I bacini, nella loro profondità umida con le alte navi puntellate, attorno a cui minuti uomini lavorano a battere o a tingere di rosso, attraggono avidamente; poi lo sguardo si solleva, vediamo un irto di alberature e di ciminiere, di ponti di comando e, dietro a questo, caseggiati fitti di finestre elevarsi sul declivio, dominati, come da un’altra nave ancorata, su, alla cima, dalla chiesa del Carignano, con le sue cupolette bianche e leggere.

Porto antico di Genova, Tall Ship all’ancora (Twice25 & Rinina25, Wikimedia Commons)

Velieri stretti in gruppi isolati come per un supremo senso di difesa, chiatte costituenti villaggi, piroscafi in disarmo, piroscafi in demolizione arrugginiti, ridotti al solo scafo alcuni, altri ancora intatti: deserti e silenziosi come case abbandonate sotto una minaccia di morte. Ecco la bianca Regina Maria Cristina che ai suoi tempi doveva essere un fior di bellezza. Invecchiano e decadono presto come le donne: non più il vento né l’onda darà loro brivido di vita; le attendono Vasta e l’occhio calcolatore degli esperti per stabilire quanto potranno dare di rame, di ottone o di bronzo. Si arriva nel porto del carbone: le alte gru sono tutto un alternarsi nel loro andare e venire, le benne si abbassano aperte nella stiva delle navi attraccate, si sollevano chiuse, i carrelli scorrono sull’alto dei tralicci, il fumo delle ciminiere si frammischia a quello della polvere sollevata dal vento. L’aria è nera, le acque sono nere: si pensa per un attimo alle vie di Londra nelle giornate più tetre e tumultuose. Dopo, da qui, sorgono verso Sampierdarena, fino a Cornigliano, i moli innumerevoli del nuovo porto, costruiti con la roccia del colle della Lanterna, destinato a sparire. E davanti, contro il mare aperto, s’eleva e si prolunga, giorno per giorno, ad occidente, la formidabile diga: orgoglio della mano dell’uomo. Si cammina su questo rettifilo marino tra il verde tremulo del mare; il sole illumina il cemento, c’è un desiderio di volo ad ogni passo, o d’una corsa a duecento chilometri all’ora. Qui la volontà dell’uomo ha posto uno dei suoi massimi segni, tra il sole e il mare.

Genova – Comune di Genova – 2024 (ElisabettaCastellano, Wikimedia Commons)

Si ritorna a terra. Si sale e si scende. Tra i vicoli: volti tesi in avanti, profili unitari, sguardi acuti, gesti nervosi: insofferenza di rimanere, necessità di vento sugli occhi e un parlare continuo che non sembra fatto di parole, ma di fremiti e di risonanze del mare. Una botte viene rotolata attraverso la strada, altri portano a spalla casse che caricano su carri, il cielo s’innalza vasto sopra le cime spoglie dei monti, il fumo delle ciminiere avvolge il groviglio degli alberi e delle sartie, di tanto in tanto una sirena ulula roca.
Giovanni Comisso

da il Corriere della Sera del 05/06/1931

Immagine in evidenza: La Lanterna di Genova ripresa dal Porto Antico (Artemisia81465, Wikimedia Commons)

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