Lasciata Civitavecchia col suo porto consolante di vita, tutta espressa dalle funi tese tra i piloni e le navi, dalle reti messe ad asciugare lungo le case, dal divino disordine degli edifici, con adiacenze sconnesse, sgabuzzini, garitte, dalla folla scalza e animosa, si prosegue rasentando il mare grigio.
Il cielo è coperto da alte nubi fumose e tuttavia filtra una luce tenue e diffusa che rende il primo verde della terra d’un cupo splendore. Sul mare, a qualche centinaio di metri, di tanto in tanto squarci di sole illuminano le acque, cosicché pare che solo lì il mare cominci. I buoi stanno sui prati, alcuni sdraiati fermi e biancastri come rocce, altri ritti e lenti; altrove, ecco, le pecore simili a gorgoglioni sul rovescio d’una foglia. Poi sulla sponda d’un fosso, come un’antecipazione etrusca, tre operai consumano il loro pasto beatamente distesi.
Arriviamo alle prime colline coltivate a frumento e a olivi; la strada sale tra muriccioli che celano campi ubertosi. Non si può più proseguire stando chiusi nell’automobile: vogliamo vedere da vicino e toccare i fiori dei fossi. Si scende. I primi fiori che scopriamo accanto alla strada sono certi fiori gialli che somigliano alle margherite. Sono fiori che abbiamo visto altrove: adornavano la terra d’Africa in primavera, quando la vedemmo per la prima volta, sbarcando ad Orano, poi ci seguirono sino a Fez, sino a Rabat, in riva all’Atlantico. I cimiteri arabi ne erano pieni: dovunque vi fosse del verde vi erano questi fiorellini gialli quasi arancione, ardentissimi e nuovi. Qui, li avrà portati il vento, quello stesso che tra giorni da quella stessa terra porterà stanche e smagrite le prime quaglie. La terra è tutta suggellata da grandi cardi acuminati, geometrici e violenti. Poi s’alza lo stocco fiorito dell’asfodelo dall’odore acre; l’amorino selvatico, la salvia e piccoli fiori rossi chiusi, forse dei papaveri, si disputano avidamente l’aria ventilata dal mare.
Tarquinia sta sulla cima del colle; appena si cammina tra le case ci s’accorge come la gente ferma abbia volto e mani d’un rosso asciutto e diffuso, quello stesso della terracotta antica.
La strada è in salita; passano uomini in gambali, e donne formose salgono portando sulla testa un’anfora: il passo lento snoda le loro anche; le case di tufo sono aride; si passa sotto ad un alto arco. Un’osteria invita con la sua insegna: «Al buon gusto»: piccolo locale con soffitto a volta e la cucina nel fondo. Uomini grassi e mammelluti stanno alla tavola. Il vino odora come fiori; la zuppa di pesce, è mangiata con tutta l’avidità del nostro corpo; le aragoste si tramutano in sangue; l’oste ospitale ci offre un dolce che egli chiama «zuppa inglese», dolce raffinato, tutto sostanza e armonia tra lo zucchero, l’aroma d’un liquore e le ova sbattute: si definisce questo dolce: zuppa etrusca.
Ora l’impazienza ci prende: bisogna andare a visitare le tombe, conoscere questa antica razza che ci fu definita sensuale e malinconica. C’è un guardiano che ci attende con una lampada ad acetilene spenta; vi sono pure degli Inglesi con un cane bulldog, bianco e affannoso. Bisogna uscire dalla città: la necropoli è fuori in piena campagna sul crinale dei colli. Giù, non molto lontano, il mare s’illumina a tratti; tutto il verde è cupo sotto la vasta ombra delle nubi fumose. Cardi, asfodeli, fiori rossi e azzurri e molle frumento su dalla terra asciutta e piacevole a toccare come una sabbia. Tutto il terreno ondeggia flessuoso di colle in colle come modellato dal mare, ma più dal vento. Queste sono le prime alture prossime al mare, dopo la campagna romana. Devono essere state scorte così in una giornata semioscura che le renda tenere e invitevoli, profonde e sospese come occhi assorti, senza pensiero, dominati da una dolcezza che non è più infantile. E fu deciso l’approdo. La terra corrispose all’amore. Ebbero la vite, l’olivo, il grano, il bestiame e la città cinta di mura. Le stagioni diedero l’amore, le corse di cavalli, i banchetti, i riti, l’arte, o poi la morte. E, morendo, vollero entrare profondi in questa terra. Tra il grano ogni tanto spuntano brevi entrate in muratura, con la porta sempre rivolta al mare. Il guardiano accende la lampada, apre una di queste porte e ci dice di entrare. Si scende per un corridoio scavato nel tufo che termina ad un’altra porta. L’aria è secca e fresca.
Qui lo scavo si allarga in un andito basso. Il guardiano proietta la luce sulle pareti bianche che appaiono tutte ornate di pitture. Siamo nella tomba delle corse di cavalli. Il guardiano spiega, gli Inglesi ascoltano, poi commentano sottovoce tra di loro; vi è anche il cane bulldog, che si sente annusare avidamente la terra.
Cavalli neri e cavalli rossi tenuti alle briglie dai cavalieri ignudi. Tralci di vite dividono gli episodi. Al centro un uomo barbuto offre con una mano una coppa al vincitore e tiene l’altra posata sulla spalla d’un giovane flautista che accompagna con la musica l’offerta. Il nero della barba e dei capelli, il rosso dei corpi, il nero e il verde chiaro dei drappi succinti: non ci sono altri colori. Non se ne vorrebbero neanche di più. Basta così; bastano l’intreccio delle d ita del giovane flautista per darci il senso del suono, e la fierezza della barba e delle spalle ignude di quello che offre la coppa per farci sentire la bellezza di questa gente scomparsa.
Ritorniamo all’aperto; il bulldog, tutto eccitato, continua a cercare col muso tra l’erba sulla traccia di antichi fermenti. Discendiamo in un’altra tomba. Lo stesso corridoio, lo stesso andito simile ad un grembo materno. Gli uomini nati dall’approdo su questa terra, morendo, vollero rientrare in essa. Questa nuova tomba ha le pareti dedicate all’amore senza limiti accompagnato da immagini di tori erti o riposanti. Anche questo, come le corse dei cavalli, appartiene alla vita e deve ravvivare i sogni dei morti. Nei cunicoli scoperchiati, miste al terreno, vi sono delle ossa e, simile ad una conchiglia, un pezzo di cranio su cui si passano istintivamente le dita come per farvi una carezza. Il guardiano scorre fugacemente la luce sulle rosse figure intrecciate; gli Inglesi osservano taciturni, e il loro cane, più agitato che mai, raspa con le sue corte zampe ricurve. Di fuori si ritrova il verde cupo come una profondità marina. Il guardiano ci dice che nella piena estate questi campi arsi dal sole mandano l’afa, e vi frusciano le serpi.
Camminiamo tra l’erba fino a un’altra tomba, quella del convito. Eccoli i grassi Etruschi che amavano mangiare distesi. Mammelluti, segnati di pieghe alla pancia; fra una testa e l’altra di uomini attoniti, appare un volto di donna dagli occhi bistrati, pallida e bramosa come colta in un momento di danza o di abbandono; il resto del suo corpo è stato distrutto dal tempo.
Da questa tomba scendemmo in una valletta; venivano dalla campagna dei ragazzi ravvivati negli occhi e sudati nel volto: erano stati a caccia di lucertole, ci videro salire per un viottolo che portava a un’altra tomba e ci seguirono incuriositi. Come la porta venne aperta, uno di loro chiese di entrare, ma il guardiano non volle. L’avidità nei suoi occhi chiari brillava acutissima. Il ragazzo doveva pensare a cose bellissime lì dentro se tanti forestieri venivano a vedere. Questo penetrare sotto terra gli dava una meravigliosa idea di mistero e per un attimo, forse pensando che anche questo apparteneva al piacere dei grandi, contrasse il volto accorato in una smania di crescere presto.
Questa era la tomba del Ciclope. È’ grande, con anditi laterali a quello centrale. Alle pareti ci sono il Ciclope, demoni, mostri, e un meraviglioso angelo infernale. Il corpo snello, con leggere ombre che segnano i giovani muscoli dei fianchi e sotto all’ombelico un lieve incavo del ventre, nell’armonia delle grandi ali sta fiero di vivente bellezza. Alla luce della lampada riusciamo a scorgere come le labbra sieno state segnate d’un rosso più intenso di quello del corpo.
Adesso abbiamo visto abbastanza, poche cose ma essenziali; vogliamo ritornare al paese, vedere la gente rinata da questa stessa terra, in questa stessa aria, vedere la loro vita. L’arte e i ruderi degli antichi possono molto servire a rivelare quello che è scomparso, ma basta un palpito di vita disceso intatto attraverso il tempo perché tutto appaia chiaro come non fosse stato spento. Ecco, ci raccontano che tempo fa a un giovane di Tarquinia morì la sua bellissima donna; ma dopo alcuni giorni, ardente d’amore, egli andò a toglierla dalla tomba e visse con lei fuori del cimitero, finché fu ritrovato, impazzito, errare per la campagna che nella pienezza dell’estate mandava l’afa e frusciava di serpi. Egli non aveva potuto credere alla morte, tanto aveva amato la vita. Come i suoi antichi che riportarono i cadaveri in tombe simili a grembi materni sicuri della rinascita, e che vollero allettare i loro sogni con le più liete immagini della vita per eccitarne il risveglio. Non credere alla morte: così queste dolci repubbliche anche non potevano credere di venire sterminate da Roma, tanto le aveva illuse la generosità di questa terra, tanto le aveva rese felici il pieno abbandono alla vita.
Dallo spalto a oriente, una mano ci addita, al di là della valle che si sprofonda a picco, un colle segnato appena di poche ombre date, da ruderi sparsi. È’ il colle dove gli Etruschi eressero la prima città di Tarquinia; poi da quel posto essi stessi la trasferirono sul colle antistante, a occidente, quello dove sorge l’attuale. Da lì essi non potevano vedere il mare, il mare donde erano venuti, e amarono anche questa-dolce illusione. Davanti a noi non si vede che terra verde ondulata, distesamente: e per più giorni, dopo questa gita, sia prima d’abbandonarci al sonno, sia nei momenti di sosta da ogni pensiero e da ogni fatica, come una visione fatta interiore altro non vedemmo apparire che il mirabile aspetto di quella terra, verde e trasparente come una profondità marina, sospesa e ondeggiante, cupa ed intensa sotto alle nubi fumose, fuse nell’aria.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 29/05/1931
Immagine in evidenza: L’affresco della Tomba dei Leopardi a Tarquinia (Le Musée absolu, Phaidon, Wikimedia Commons)