Confortevole illusione nella quale trovare rifugio, ma anche lente per interpretare la realtà, per rinnovarsi facendo tesoro di ciò che si è stati, la memoria può rivelarsi un buco nero in grado di generare energia e, al contempo, di inghiottirla, liberando torme di mostri che prendono spazio e divorano tutto. Secondo Primo Levi: «La memoria è come il mare: può restituire brandelli di rottami a distanza di anni». A volte, è ciò che resta di un uomo quando la vita non lo chiama più. La memoria, ripercorsa attraverso la nostalgia del tempo che non ritorna, è al centro de “Il peso dell’assenza”, il primo romanzo di Gianluigi Bodi, uscito lo scorso 26 aprile per Les Flâneurs Edizioni.
Il testo coincide con il racconto in prima persona del protagonista senza nome, che torna a Venezia, nel tentativo di superare il peso dell’assenza dell’amata moglie Silvia, allontanatasi in circostanze non precisate. Ospite dell’amico Edoardo, che vive nella città lagunare con la moglie Eva e la figlia di sei mesi Lucilla, l’io narrante, all’indomani del suo arrivo, come nei giorni successivi, intraprende una serie di peregrinazioni apparentemente senza mèta tra le calli veneziane, che in realtà lo portano nei luoghi più significativi della sua storia d’amore con Silvia, dove riaffiorano i ricordi del loro passato. Ma quando le rievocazioni sembrano sul punto di prendere consistenza, irrompe in scena l’inquietante clown Barrante a sgretolarle e a sgretolare con esse l’identità del narratore, che si trova via via sempre più inerme e disorientato di fronte a una realtà senza fondo, dentro la quale precipita inesorabilmente, fino alla svolta finale.
Per brevità il libro di Bodi può rientrare nella definizione di racconto lungo o di romanzo breve.
Indipendentemente dalla lunghezza, il testo risente nella struttura l’influsso dei tempi narrativi del racconto, la forma percorsa finora dall’autore nel suo libro d’esordio, la raccolta “Un posto difficile da raggiungere” (Arkadia, 2023), e in brani apparsi nel tempo in volumi e riviste. Alcune scene fondamentali, su tutte le apparizioni di Barrante (e in particolare la prima), proprio per l’efficacia che le contraddistingue, meriterebbero una maggiore estensione. Lo stesso vale per il protagonista, il cui sguardo potrebbe beneficiare maggiormente del potenziale narrativo offerto dalla sua caratterizzazione (sulla quale non è possibile aggiungere di più senza evitare spoiler).
Apprezzabile è la rappresentazione di una Venezia inedita, fuori da ogni cliché, labirintica e misteriosa, personificazione concreta della memoria frammentata e frantumata del protagonista, oltre che espressione del suo paesaggio interiore. Una simile idea di Venezia nasce dalla voce del narratore che, a un livello ulteriore, è il risultato della scrittura di Bodi, una scrittura sensibile, minimalistica, lontana dalle pose di certa letteratura ipermoderna; che non si appropria di un tema per fare dell’etica vuota di facile consumo (anche questa è un’abilità), ma che si concentra semmai sulla storia, sulla rappresentazione di quel tema, riuscendo così, in alcuni punti del romanzo, a toccare le corde più intime dell’individualità del lettore.
Estratto
Entriamo in casa, Edo chiude piano la porta e io mi immobilizzo, restando appiattito contro la parete. Dal corridoio vedo avanzare Eva, non può che essere lei. Anche se non l’ho mai vista di persona.
«Ciao», mi accoglie con un sorriso che mi scalda. Capisco che Edo non mi ha mentito, è stata lei a volermi lì.
Supero il corridoio, entro nel salotto e vedo la culla. Edo mi fa segno di avvicinarmi, qualche passo e vedo Lucilla sotto le copertine rosa e bianche, i pugni al petto, pronta a sferrare un destro e un sinistro alla vita. Sorrido. È bellissima, penso.
«È bellissima» ripeto.
Ci spostiamo in cucina, c’è un piatto con dell’arrosto e un altro colmo di purè.
«Io non ho portato nulla».
«Ma che problemi ti fai? Non fa niente!» mi tranquillizza Eva.
«Ho fatto le cose di fretta, scusatemi».
«Non importa» e apre una bottiglia di Merlot.
Beviamo. Durante la cena Lucilla si muove, parlotta a modo suo, poi sul tardi inizia a piangere. Eva si alza, si scusa, la prende dalla culla e si siede sul divano. La musica continua a offrire un sottofondo, si mescola con i vagiti di Lucilla, poi Eva alza la T-shirt e Lucilla smette di piangere.
Forse non dovrei fissarle, è un gesto intimo, mi sembra di infrangere un limite, ma non riesco a distogliere lo sguardo. Eva osserva la figlia attaccata al capezzolo, sento il rumore ritmato della suzione. Lucilla ha gli occhi chiusi e a un certo punto capisco che si è addormentata.
Sbadiglio.
«Vai a letto» interviene Edo.
Annuisco, ringrazio di nuovo tutti per l’ospitalità, vorrei ringraziare anche Lucilla, ma non voglio svegliarla. Edo mi dà una chiave.
«Puoi entrare e uscire quando vuoi».
Osservo la chiave nella mia mano.
«Sei sicuro?» gli chiedo guardando Eva.
Lei annuisce e sorride.
Vado a letto e prima di addormentarmi mi lascio guidare da un groviglio di pensieri sconnessi, in cui non riesco ad afferrare il senso della realtà e della fantasia.
L’intervista
[Giacomo Carlesso]: Come nasce questa storia? E perché sentivi di raccontarla?
[Gianluigi Bodi]: Il nucleo de “Il peso dell’assenza” ha una genesi che va parecchio indietro negli anni. Almeno venticinque. Mi sono trovato, tutto d’un tratto, ad avere una “visione” e a sentire forte una frase: quando ritornò la città non era più lì. Partendo da questa frase e dalla visione che l’accompagnava mi sono immaginato una storia che le giustificasse. Poi ho anche iniziato a scrivere quella storia, ma forse perché non ero abbastanza bravo, forse perché non tutti gli elementi mi erano chiari, l’ho abbandonata. Di recente, non so dire per quale motivo, quella frase mi è tornata in mente e finalmente sono riuscito a capire fino in fondo il significato della mia visione e anche che ruolo avessero i personaggi nella storia. Le cose hanno trovato il loro posto e io ho sentito una strana urgenza di scrivere questa storia come se avessi il tempo contato. Nel momento in cui ho capito quello che mi girava per la testa da così tanti anni ho sentito la necessità di mettermi a scrivere ed è stata una sensazione molto bella da provare.
Finora ti abbiamo conosciuto come scrittore di racconti. Com’è stato il passaggio dal racconto al romanzo? Quali vantaggi credi possa apportare alla tua crescita di scrittore?
Il passaggio non è stato premeditato. Mentre scrivevo i racconti che sono finiti nella raccolta “Un posto difficile da raggiungere” stavo scrivendo anche un romanzo che ha trovato un posto facile da raggiugere nel proverbiale cassetto. Per me è essenziale leggere sia i racconti che i romanzi e di conseguenza è diventato essenziale scrivere sia i romanzi che i racconti. “Il peso dell’assenza” è forse qualcosa che si colloca a metà tra le due forme. Io lo considero un romanzo breve, ma per quel che mi riguarda le etichette contano poco. Quando ho avuto la certezza che avrei scritto questa storia avevo anche capito più o meno quanto sarebbe stata lunga. Qualche lettore si è lamentato dicendo che l’avrebbe desiderata più lunga, ma alla fine io sono convinto che abbia la lunghezza giusta e necessaria per raccontare questa storia. Quindi, diciamo che non ho sentito “il passaggio” da una cosa all’altra proprio perché si sono sovrapposte nello stesso periodo. Però mi rendo conto che ragionare su un romanzo, lavorare con tempi più dilatati, con più personaggi, magari con più linee narrative, è un lavoro molto complesso che richiede disciplina e forza di volontà. Da questo punto di vista credo di aver avuto un vantaggio, cercare di pensare in maniera più ampia, abbracciare tutti i personaggi, vederli muoversi anche quando non sono in scena.
Sin dalla fortunata, e tuttora in corso, esperienza con il blog Senzaudio hai dimostrato una spiccata sensibilità di lettore, al punto che mi è capitato di associarti, tra me e me, alla tipologia di lettore con il quale uno scrittore vorrebbe confrontarsi. Ora che ti trovi dall’altra parte, come immagini il tuo lettore ideale?
Devo dire che al lettore ideale ho pensato spesso all’inizio del mio percorso di scrittura. Credo di essere una persona che ha bisogno di portare avanti un dialogo costante, soprattutto quando si tratta della scrittura. Quindi cercavo nel rapporto con il possibile lettore proprio questo tipo di relazione fatta di rimandi e feedback. Poi mi sono reso conto che pensavo a lui nella maniera sbagliata. Mi chiedevo cosa avrei dovuto scrivere per portarlo dalla mia parte, per fargli piacere. Però così facendo mi stavo scordando di cosa piacesse scrivere a me. Quindi ho iniziato a pensare al lettore come a un’estensione di me stesso. Cosa mi piace leggere? Cosa mi piace scrivere? Scrivi come ti piace perché lì fuori ci sarà di sicuro un lettore che apprezza le storie che piacciono a te. Magari il pubblico formato da questi lettori affini sarà un pubblico minimo, non toccherà le vette di quello di alcuni fenomeni letterari italiani del momento, ma nel momento in cui si riesce a instaurare un rapporto sincero con chi ti legge, allora va bene, hai fatto qualcosa di importante.
Giuseppe Pontiggia, nel saggio “La lotta tra Manzoni e l’Anonimo”, definisce il rapporto di un autore (da lui chiamato ‘narratore’) con i personaggi non molto diverso da quello con le persone: «rapporto spesso ambiguo, complesso, inafferrabile». Ti chiederei, dunque, di riflettere sul tipo di rapporto che hai con i tuoi personaggi e se questo rapporto abbia subito un’evoluzione nel corso del tempo.
Qualche anno fa mandai un mio racconto a un amico che stava vivendo un buono momento visto che il romanzo che aveva scritto stava andando a gonfie vele. Lui lesse il mio racconto e alla fine mi disse che non gli piaceva perché non c’era nessuno di davvero cattivo. Ho riflettuto parecchio negli anni successivi su ciò che mi aveva detto. Credo che avesse ragione, non c’era nessun personaggio profondamente cattivo, ma c’era un personaggio che si era dovuto inventare cattivo per superare gli ostacoli che una vita difficile gli aveva messo davanti e io non riuscito ad avercela del tutto con lui, anche se indubbiamente si stava comportando molto male. Credo di essere, da questo punto di vista, uno scrittore molto empatico. Cerco di analizzare il comportamento dei miei personaggi e di chiedermi quanto del marcio che ne esce sia completamente colpa loro. Se un padre ha un pessimo rapporto con il figlio io mi chiedo cosa abbia portato il padre a comportarsi in quel modo, mi chiedo cosa ci sia dietro, che pesi giustifichino quel modo di gestire la relazione tra i due. Credo però che nel disegnare i tratti caratteristici di Barrante, il clown protagonista de “Il peso dell’assenza” sia riuscito a mettere un po’ da parte questa empatia e a lavorare su di lui in funzione di ciò che rappresenta all’interno della storia. Forse in questo caso mi serviva più la funzione che il personaggio.
Tempo fa mi è capitato di leggere su Carmilla un tuo dialogo con Alessandro Cinquegrani a proposito di “Un posto difficile da raggiungere”, dove, parlando di alcuni tuoi personaggi totalmente negativi, li consideri l’esito dell’intreccio tra la tua visione del mondo e l’influenza esercitata su di te da Stephen King, sottolineando come in quasi tutti i suoi libri l’antagonista principale sia «una declinazione del male puro. Una persona, un’entità, una cosa, capace solo di perseguire il male, incapace di redenzione, incapace anche solo di concepire l’idea che ci sia una redenzione possibile». In tal senso, quanto c’è di Pennywise in Barrante? Pensi ci sia un legame, anche inconscio, tra la caratterizzazione di Barrante e la figura del protagonista?
Questa domanda si lega perfettamente a quella precedente. Barrante è arrivato a poco a poco. Prima c’è stata l’immagine del clown, poi quella dei suoi occhi bianchi e infine il suo, passami il termine, significato. Nel romanzo Barrante è la personificazione di qualcosa, se vogliamo di un certo tipo di male, ma forse, per dirla meglio, è la personificazione di un particolare dolore. Quando ho iniziato a crearlo sulla pagina mi sono chiesto come lo avrebbe trattato Stephen King e quindi credo di poter dire che l’ispirazione mi sia arrivata da lui, anche se quando mi sono immaginato un clown che girava per Venezia non avevo ancora letto “It”. Ad un certo punto, nel romanzo, è lo stesso Barrante a paragonarsi a Pennywise di King, ma si tratta più che altro di un gesto di intesa con il lettore, tanto per fargli capire che so a cosa sta pensando, ma anche se ci sono delle somiglianze i due personaggi non sono uguali.
C’è invece un legame profondo tra Barrante e il protagonista senza nome del romanzo. Il fatto che uno segua l’altro e lo tormenti senza possibilità di scampo ha un significato ben preciso che però non posso dire qui altrimenti rischierei di rovinare la lettura del romanzo.
Georg Simmel, nel noto “Filosofia del paesaggio” (1913), distingue tra natura e paesaggio. Laddove per natura si intende «l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità dell’esistenza temporale e spaziale», il paesaggio rappresenta una delimitazione, la cui «base materiale» o le cui «singole parti» possono avere il valore di natura, ma «richiedono un essere-per-sé che può essere ottico, estetico, legato a uno stato d’animo, reclamano un rilievo individuale e caratteristico, rispetto a quell’unità indissolubile della natura». A mio modo di vedere, la Venezia del romanzo riflette sì il paesaggio interiore del protagonista, ma anche, nei vuoti della narrazione, nel non detto, la natura labirintica e caotica nella quale l’io narrante rischia di disperdere la propria identità. Al contempo, mi sembra che nella tua idea di Venezia si possa far coincidere il rapporto tra natura e paesaggio a quello tra mente e memoria. Credi siano considerazioni troppo azzardate o ci ritrovi un parziale fondamento? Trovi sia fuorviante ritenere Venezia il personaggio più complesso del romanzo?
Quando ho iniziato a scrivere il romanzo avevo ovviamente già progettato di ambientarlo a Venezia. A quel punto mi sono posto un problema. Ci sono centinaia, migliaia, di romanzi ambientati a Venezia. Molti di loro hanno anche parecchio successo. Il fatto è che leggendoli mi rendo conto che la Venezia che descrivono è una Venezia finta, da cartolina. È la Venezia che un turista si aspetterebbe di vedere una volta sbarcato in Laguna. Per me, una città descritta in questo modo perde totalmente il suo interesse. La Venezia che volevo rappresentare io era una città che non vive solo di luoghi turistici di forte attrattiva, come ad esempio Piazza San Marco, ma che vive una vita sotterranea nelle calli, tutte uguali, che sbucano in un rio; che pulsa anche davanti a un cancello chiuso o in un locale che ora non c’è più ma che un tempo era luogo di aggregazione per la gente del posto. Ho cercato quindi di tracciare una mappa della memoria delle migliaia di versioni di Venezia che ho visto nella mia vita e di utilizzare elementi presi da ognuna di esse per creare un mosaico unico: la mia Venezia.
Una città quindi capace di inghiottirti, di farti perdere per sempre, di lasciarti dei segni addosso, capace di mostrarti una via d’uscita poco prima di sprofondare nella pazzia. Forse, considerando tutti questi aspetti, Venezia è stata davvero il personaggio più complesso da creare. Soprattutto perché Venezia interviene pesantemente nel rapporto tra memoria e realtà, tra memoria e mente. Il protagonista è indubbiamente messo alla prova dalla città stessa, ancora prima che subentri Barrante. C’è qualcosa in lei che gli sfugge, qualcosa di inafferrabile, una differenza minima tra come le cose dovrebbero essere (ma dovrebbero per chi?) e come in realtà sono.
Uno dei temi centrali, se non il tema centrale, del libro è la memoria. Ti è mai capitato di associare la scrittura al ricordo che lascerai di te?
Direi che mi capita spesso. A un certo punto mi sono reso conto che alcuni autori del passato, pur essendo morti da centinaia d’anni, saranno ricordati per sempre. Io temo di avere il timore di dissolvermi senza lasciare la minima traccia e credo anche che il mio voler scrivere dipenda anche dal tentativo, disperato o meno, di voler lasciare una traccia del mio passaggio su questa terra. Non aspiro ovviamente al pubblico enorme di questi scrittori immortali, ma mi accontenterei di un paio di persone qua e là.
Gianluigi Bodi – Il peso dell’assenza
Editore: Les Flâneurs Edizioni (26 aprile 2024)
Copertina flessibile: 118 pagine
ISBN-13: 979-1254511664
Peso articolo: 160 g
Dimensioni: 15 x 1.6 x 21 cm
Gianluigi Bodi è nato 1975. Nel 2013 ha fondato il blog letterario Senzaudio. Nel 2015 ha vinto il concorso del Festival letterario CartaCarbone con il racconto “Perché piango di notte”. È stato due volte finalista al contest 8×8. Suoi racconti sono apparsi su numerose riviste, oltre che nelle raccolte “I giorni alla finestra” (Il Saggiatore, 2020) e “Ti racconto una canzone” (Arcana, 2022). Ha curato due antologie di autori vari, “Teorie e tecniche di indipendenza” (Verbavolant, 2016) e “Hotel Lagoverde” (Liberaria, 2021). Nel 2023 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti, “Un posto difficile da raggiungere” (Arkadia). “Il peso dell’assenza” è il suo primo romanzo.