Ore perse, vivere a sedici anni. Il libro e il talento di Caterina Saviane

Ore perse, vivere a sedici anni. Il libro e il talento di Caterina Saviane

Indefinibile. Che specie di libro è “Ore perse. Vivere a sedici anni“? I quaderni degli adolescenti sono spesso un magma di abbozzi incompleti – di poesie, di canzoni, di storie – dentro e fuori dalla coscienza. Ma questo è un oggetto diverso, già letterario. Il racconto è in presa diretta, ma non può definirsi un diario; ne manca la caratteristica performativa, c’è una quota narrativa, una rielaborazione del pensiero. Non si tratta nemmeno di semplici appunti. Dunque? Caterina Saviane, voce narrante, legge Kerouac, va al mare e perde tutte le coincidenze – treno traghetto pullman – litiga con la madre, assiste al matrimonio della coetanea. Quasi un romanzo, ma no. Piuttosto, assomiglia a un filmino VHS su cui si accumula via via il girato: spezzoni di vacanze, di momenti in casa, degli stupidi pomeriggi con gli amici. A volte l’inquadratura è scentrata: la vicina razzista parla senza volto, di lei vediamo solo l’agitarsi delle mani. E ancora, sentiamo il dialogo tra Caterina e Franco, ma camminano e la ripresa punta in basso verso i piedi e balla tutto, chi se ne frega, è bello uguale. Camera fissa sul cane, sul crisantemo, sul vaso. Che ne sapete voi? Com’è la vostra vita? Chi vi dà il diritto di guardare? Sono le domande di un’intervista impossibile agli oggetti della casa. In altre pagine l’immaginaria cinepresa registra a raffica il paesaggio dal finestrino del treno, dell’auto; ogni tanto è abbandonata accesa sul tavolo durante una discussione in famiglia; quando è girata al contrario verso Caterina, diventa uno specchio e i pensieri si fanno tragicamente intimi.

Compaiono posti veri, nomi veri, e lo stesso tutto pare sognato, come quelle impressioni da ragazzo che poi diventano imparagonabili. Una sequenza di idee inafferrabili, la riga di testo frana e svanisce sotto la successiva: è un libro-adesso, scritto nell’estremo presente dell’Io che narra. Strano, molto. E straordinario. Si può scrivere così bene il proprio primo libro? Folgorante eppure fragile, attenzione: maneggiare con cura. Fa pensare a un piccolo miracolo, come ha fatto una giovane ragazza a raccontarsi con tanta lancinante precisione?

Ore perse. Vivere a sedici anni” esce per Feltrinelli nel 1978 nella collana “franchi narratori” curata da Nanni Balestrini e Aldo Tagliaferri, collana che accoglie “testi di una certa inquietudine, legata a interessi sociali affrontati con il coraggio di chi metteva il dito nella piaga”. L’esordio di Caterina Saviane è un caso editoriale: prima tiratura 15 mila copie, cinque ristampe in un anno, traduzioni all’estero. Poi, niente. Il libro viene quasi dimenticato, diventa introvabile. Oggi Rina edizioni, casa editrice indipendente romana, ha il grande merito di riportarlo in libreria e la letteratura si riappropria di una voce personalissima ed enigmatica.

Una ci nasce così, scrittrice naturale. Perché al netto di alcuni passaggi ingenui, la lingua possiede già una propria tonalità ed è costruita su innumerevoli variazioni. Nel mezzo di un aneddoto sorprende un’intuizione. Tra le battute di un dialogo, una frase improvvisa spacca la banalità e apre squarci nel mondo interiore della ragazza. Spontaneo, esatto. Un’intelligenza feroce.

Il romanzo del Novecento è pieno di adolescenti, da Torino alla Sicilia, figli di operai o della borghesia, studenti, lavoratori o spiantati cresciuti in strada. Agostino, Mara, Arturo, Ernesto e tutti gli altri nomi, ciascuno alle prese con la «traversata del mare materno» (Elsa Morante, quarta di copertina de “L’isola di Arturo“), un doloroso percorso di metamorfosi in cui personaggi si confrontano con la famiglia, la politica e il sesso in diverse proporzioni a seconda dei casi, fino all’approdo a una nuova identità.

«Ogni generazione ha i suoi adolescenti» e la distanza tra loro «nasce sul terreno socio-culturale e dei comportamenti: lo scarto si determina […] sui margini di trasgressione accettati, su quali pratiche siano definite tabù e sulla loro raffigurazione» (Elisabetta Mondello, “L’età difficile“). Anche per questo sarebbe interessante conoscere la reazione di un GenZ alla lettura di “Ore perse,” la cui autrice è di fatto la sedicenne che oggi loro chiamano, con sottotono dispregiativo, boomer.

È il biennio ’75-’77, anni complessi. Anche Caterina ha letto “Porci con le ali“, l’avevano letto tutti, le dicono Cate, «se vuoi trovare lavoro o suoni la chitarra o scrivi Porci con le ali». Ma lei vuole fare il pezzo suo, «Non parlarmi di Porci con le ali: quello è proprio un trucco del cazzo». Le interessano più le inquietudini del corpo che il sesso, e la politica non è agita, solo una presenza esterna che filtra dalla finestra. Sa e non sa cosa vuole, ma sa che deve fare presto, scrivere prima che svanisca la cosa (ma cosa?) che si sente nel corpo a sedici anni, prima che passi la rabbia, il magone.

La differenza con gli altri libri sull’adolescenza è questa: Ore perse “è” l’adolescenza.

La scrittura stessa è adolescente: si ribella all’agguato continuo della noia, prova a sfondare il muro della sintassi, prende un colpo, torna indietro. Sfacciata fino alla crudeltà. E appena un momento dopo si ritrae, muta, fragile. Rabbiosa fino alle lacrime, si divincola, è materia viva: lancia una richiesta: non parlare, però resta; guardami da lontano. Tutto e il contrario di tutto. Un procedere per accumulazione di pensieri, sempre di più sempre di più fino all’approdo finale, potente, inaudito. Ad esempio, quando dice: «Mi sveglio più tardi con l’angoscia furiosa di un sonno allargato dal vino che non mi concede né spazio nel tempo. Qualcosa devo aver sognato, devo aver sognato qualcosa di terrificante. Ma cosa? Il sonno, più crudele del risveglio, mi è nemico: si rifiuta di stendersi accanto a me. C’è troppa notte nel mio letto».

In certi punti ricorda il flusso libero di Clarice Lispector, ma con più rabbia. In altri, le crudezze di Pier Vittorio Tondelli, ma con una sfumatura lirica.

E così come l’adolescenza, questa scrittura è uno stato di grazia, per definizione transitorio. Caterina lo sa. «Io so qual è il mio male, che quando faccio qualcosa penso al momento dopo, quando non ci sarà più». Sente il futuro scivolarle dalle mani. «Prevedo tutto con una chiarezza che mi fa paura».

Guarda il mondo con lucidità penetrante, ne sente la densità, è toccata dall’assurdo. Vede il dolore sotto le palpebre della gente, dei vecchi, dei cani, «come invecchiano i cani, sono proprio loro che ti danno l’angoscia degli anni che si sorpassano nel tempo».

Caterina è un’adolescente che usa la parola morte sapendo cosa significa: «È morto anche Pasolini, ieri, e io ancora vivo, sacramento». Ma vive davvero? Caterina se lo chiede. E nell’età in cui ogni emozione è amplificata, sente il pericolo della medietà, scalpita, gli altri sono dei morti di sonno, come ha potuto l’amica sposarsi, e quell’altro farsi prete – «prega, coglione, non sai fare altro nella vita»-, e tutti tradire il proprio desiderio… ma lei non la sprecherà, non sotto lo sguardo di signore in tailleur; «mamma mia, come sono incazzata». La rabbia c’è sempre e si muove sotto come un rizoma, a volte le parole diventano violente. «Andate pure nell’altra stanza a mangiare, obesi imbuti da baraccone» e «quelli là che si fanno chiamare genitori buttali giù dal balcone, che è ora». Caterina odia i genitori di tutti. I suoi sono divorziati, le relazioni tese, le tocca la spola tra la casa in cui vive con la madre e la sorella e la casa del padre, quella che più le assomiglia. Qui si sente il concerto di due macchine da scrivere, i mostri sulla scrivania, niente orari né costrizioni. E c’è il vino e «oltre le bottiglie di vino e cartocci di latte ci sono anche cumuli di giornali, vecchie riviste, libri, fogli scritti: non ci si muove più. Ogni giorno il disordine prende più spazio».

Caterina sta male, beve troppo, si procura tagli sulla pelle. Nel mezzo di una festa un senso di estraneità le prende la gola; l’oggettività delle cose – la loro troppa-esistenza – fa paura e si scontra con una sorta di dissipazione del soggetto, che perde il gancio sulla realtà. «Parlo, ma la voce che sento non mi appartiene, arriva da un registratore lontano […] Le labbra si muovono in anticipo di secoli rispetto al suono come se l’audio non fosse sincronizzato sul video».

Il tragitto avanti e indietro tra le due case è simbolicamente il tentativo di percorrere un vuoto, ma i legami subiscono il logorio di ogni nuovo incontro e successivo distacco. Il rapporto con Sergio Saviane, stimato editorialista de L’Espresso, è profondo e difficile.

È un padre «inabbracciabile». Caterina ne intuisce le zone oscure del carattere e ne vede la statura intellettuale. Si vogliono bene, ma come tradurre la stanchezza e la paura che ciascuno porta in sé? Uno stare assieme carico di precarietà, gesti trattenuti per difendersi dal sentimento e c’è sempre un po’ di morte nel loro salutarsi, quando lei dice «Ciao, bel ragazzo» e lui risponde «Cerca di divertirti».

Nonostante abbia le caratteristiche di un sintomo privato, la melanconia di Caterina è la raffigurazione di giovani sospesi nel mezzo, che usano la parola rivoluzione mentre bivaccano sulla spiaggia, falò e chitarra, «la generazione degli strimpellatori», «di chitarrosi, con la sigaretta in bocca e gli occhi in posa, per far vedere che si soffre la gioventù». Sergio Saviane li chiama «pellepersa», arrabbiati e insieme affetti da una generica stanchezza morale, una «scoglionaggine»; questi figli disillusi saranno travolti dal dilagare dell’eroina, tragico destino per molti, moltissimi, compresa la stessa Caterina, morta di overdose a soli 31 anni. Monica, Andrea, Franco, Daniele: vivono le estati interminabili e struggenti dell’adolescenza, tra Numana e l’Elba, rimandando ogni vera presa di posizione sul mondo. L’epoca si è incagliata: il fine non è più la felicità collettiva ma quella individuale. È l’inizio del postmoderno e Caterina si sente tradita. Da cosa? Da nulla, da tutto, un nervoso da piangere, qui si soffoca.

Spesso Caterina dice «ricordi» anche quando intende pensieri ed è vero, esiste la sensazione del-tutto-già-pensato, dell’andare avanti sentito come ritornare. Il futuro scivola indietro e distrugge il fascino dell’immaginazione.

Scrivere e fare presto, la vita già preme, Silvana si è sposata, Daniele si iscrive a Ca’ Foscari, non più a Roma, e chi lo vedrà più. Ma in fondo è così per tutti, si passa da un posto all’altro, da una cazzata all’altra. E allora, perché questa malinconia?

Caterina lo capisce alla fine del libro: perché lei è una poetessa. La poesia è una condanna, «è inutile che cerchi di liberarti di lei, se ce l’hai dentro. Te la devi tenere».

Forse, quelle parole nell’interregno tra ricordi e pensieri sono versi, e allora sfuggire al vuoto è impossibile, nemmeno riempiendo la vita di cose, amici, tramonti, non vale la pena provarci, tanto non serve a nulla: «tutto nel mondo / è sempre più triste per il poeta» (Nikolaj Stepanovič Gumilëv, da “ll campanello che squilla”).

La sua poesia scatenata e irriverente piacque, tra gli altri, ad Andrea Zanzotto, (ne parla Maria Grazia Calandrone in un articolo per Doppiozero, qui) che ne aveva intravisto un «movimento ciclonico incontenibile». Il corpus poetico di Caterina è stato raccolto in “Appénna Ammattita“, edito da Nottetempo, oggi non più disponibile; a quanto pare, l’essere fuori canone e fuori catalogo è il destino di Caterina Saviane.

L’adolescenza: un tempo eterno che scompare immediatamente, nessuno di noi ricorda davvero i propri anni meravigliosi, restano solo impressioni e la memoria di un vago dolore. Ma leggendo “Ore perse” l’adolescenza ci torna davanti agli occhi, scopriamo ricordi che non sapevamo di avere.

Ho prestato il libro a Kristina, sedici anni a novembre. Ha detto: «Caterina sembra vera, si capisce perché è incazzata col mondo come noi, ma usa più parole di noi, assomiglia a Eva in IIB, anche lei si fa mille domande in testa. Possibile? Siamo sempre tutti preoccupati di perdere il treno, poi bisogna aspettare una vita perché ne arrivi un altro; però sì, non me l’aspettavo, questo libro è stra-figo».

Incontro Andrea Fogli, artista, amico di Caterina Saviane e suo compagno di Liceo dal settembre ’73 al luglio’78. È lui l’Andrea del libro, il bel ragazzo che dipinge un gatto sul sasso e gioca alle ombre sulle pareti. Sì, è lui. Erano un gruppo di amici, stavano sempre insieme. Chiedo cosa facessero, sorride: è una domanda che gli veniva rivolta anche allora, e spesso in tono malizioso. Eppure, mi racconta, non c’erano tra loro storie sentimentali. Parlavano di continuo. Niente marjuana, né hashish. Bevevano vino, quello sì. E lunghe camminate di notte, l’importante era stare in giro, andare da qualche parte. Insieme, ovviamente. Spesso a Tarquinia, all’Elba e a Numana, giorni mezzi vissuti mezzi sognati, tanto che alcuni luoghi sfociano nell’idillio fantastico. Nel libro ad un certo punto Caterina parla di un posto immaginario, nannìa, dove si può essere felici; mi racconta di aver fatto dei disegni su nannìa, deve averli ancora da qualche parte.

Gli chiedo: e non avete mai vissuto la violenza della politica? Impossibile dissociare quegli anni dalla lotta nelle piazze. In effetti, ricorda che Caterina era iscritta alla FGCI e d’altra parte l’impegno politico era inevitabile. L’ultimo corteo a cui parteciparono insieme fu quello in cui venne uccisa Giorgiana Masi; loro stavano là, a Ponte Sisto, tutto si faceva complicato ed estremo, ad un certo punto hanno sfondato un’armeria e lì hanno avuto paura sul serio. Quel giorno fu chiaro a lui e agli altri che bisognava uscirne, basta: la causa politica si era trasformata in una violenza adolescenziale marginale.

E Caterina com’era? Ci pensa un attimo: aveva sempre le mani fredde. E un’intelligenza estremamente vivace. Leggeva tantissimo fin da piccola. Aveva cominciato il libro già a quindici anni, ogni tanto ne leggeva dei brani e mostrava i suoi fogli pieni di schizzi a matita; era anche brava a disegnare, suo padre Sergio aveva persino chiesto loro di fare delle vignette per una rivista… Liceo classico, figli di intellettuali; lo ammette: erano snob, totalmente, anche Caterina lo era; nel modo in cui si è snob e incazzati da adolescenti.

Chiedo se l’ha più rivista dopo la maturità, dopo che si era trasferita a Milano, ma no, dopo il ’78 dice di averne perso le tracce. Purtroppo, sappiamo com’è andata a finire e non sorprende perché la descrive come un profilo autodistruttivo, si strappava la pelle delle unghie, arrivava da loro con dei tagli sulle braccia. C’era anche una certa dose di melodramma, apparentemente. E mentre lo dice mi vengono in mente certe frasi del libro, come «È la serata giusta per un suicidio giusto» in cui c’è un eccesso che fa sorridere.

Alla domanda secondo te, cosa prevaleva in lei, la rabbia o il dolore? Andrea non ha dubbi: il dolore. Caterina era un carattere malinconico e oltre a questo soffriva molto per la separazione dei genitori, alcuni litigi violenti in casa le avevano lasciato una ferita. Era estroversa, sorrideva e scherzava, ma sotto si intuiva una tristezza latente.

A pagina 118 leggo: «Andrea dove sei? Dov’è il tuo sorriso, dove i tuoi occhi, anzi le tue stelle come li chiama Valeria?». Guardo i suoi occhi: voi amici avevate capito quanto lei fosse brava a scrivere?

Sì, certo, l’avevano capito. La stimavano molto. Scriveva testi pieni di idee e di immaginazione. Anche gli insegnanti ne avevano colto il talento. In qualche modo gli amici partecipavano ai suoi progetti di scrittura, lui stesso l’ha accompagnata dall’editore Feltrinelli a consegnare i manoscritti.

E lei? Aveva capito di aver scritto qualcosa di importante? L’impressione è che non ne fosse del tutto consapevole, e come poteva, a soli sedici anni? Infatti, Andrea mi conferma che Caterina ha scritto “Ore perse” in modo spontaneo, aveva uno stile letterario innato. Forse c’era in lei il desiderio di diventare scrittrice, ma nemmeno lui sa giudicare quanto ci credesse davvero. Scriveva e basta, così. Di sicuro aveva un temperamento d’artista e il suo lato espressivo l’aiutava a sopportare l’angoscia.

Immagino abbia letto il libro… ovviamente sì. L’ha letto e riletto. All’epoca aveva fatto loro un grande effetto. Da un lato l’orgoglio di vedersi raccontati; dall’altro una sensazione straniante: Caterina li aveva resi personaggi e senza fare sconti: quel libro era anche critico nei confronti di loro compagni – di lui, ad esempio, diceva che era un James Dean sempre lì a guardarsi allo specchio. Ed era vero? Sorride…

Che fine hanno fatto tutti? Ognuno di loro ha preso strade diverse. Franco, Monica, Stefano, li rinomina uno a uno, traccia i loro percorsi di vita, capisco che qualcuno s’è perso, qualcun altro si è salvato. Ma ricordare dopo un po’ mette malinconia, è il momento di smettere con le domande.

Incredibile che in questi anni non ci sia stata occasione di elogiare Caterina pubblicamente. O forse era naturale che fosse così, lo spiega lei il perché: «Quando vi ho perso, amici miei? Vi ho perso quando vi ho amato, da quando ho cominciato ad amarvi».
Francesca Zanette

Caterina Saviane – Ore perse. Vivere a sedici anni
Prefazione: Luciano Funetta
Rina Edizioni
Anno: 2023
ISBN: 9791280251053

Francesca Zanette vive a Treviso dove lavora nel campo del marketing come libera professionista. Ha all’attivo esposizioni di progetti artistici fotografici in mostre personali e collettive; la sua indagine artistica esplora i modi della relazione spesso conflittuale tra immagine e parola. Scrive di fotografia e letteratura, ha pubblicato racconti su riviste online e cartacee, è autrice del romanzo 𝐷𝑜𝑣𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑐𝑎, ed. Readerforblind, 2022. 

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Dalla copertina del libro “Caterina Saviane – Ore perse. Vivere a sedici anni”, Feltrinelli, 1978

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