Come si potranno dimenticare, lontano che si vada ancora, l’accogliente sorriso e la serena fortitudine di alcune suore italiane incontrate peregrinando per la Cina?
Le Canossiane di Hong-Kong: le rivedo definite nel loro abito marrone e la veletta nera sul capo, sciolte nella conversazione cinese con le dipendenti, e con me parlanti in un italiano fortemente modulato dalla cadenza regionale. Alcune dirigono un lussuoso ospedale, altre un Collegio grandissimo e altre, ancora, caritatevoli istituti, come la Santa Infanzia e il Ricovero per i ciechi. Tutto è bene amministrato: gli istituti per i ricchi servono a mantenere quelli per i poveri. Si pensi che è tale la perfezione del loro insegnamento nel Collegio, che persino famiglie di religione diversa, buddiste e protestanti, affidano loro le proprie figlie. Commovente era una suora, vecchietta. con quasi cinquant’anni di Cina: ella parlava col suo accento lombardo, forte ed intatto come la costanza che le brillava negli occhi. Rimpicciolita e curva, in una cameretta del Collegio dava ad alcune signorine lezione di francese; e mi chiese, additandomi una macchina da scrivere, come si dicesse in italiano la persona che scrive a macchina e come il verbo; ella sapeva in inglese, ma non in italiano, perché quando aveva lasciato l’Italia «queste cose non c’erano ancora». Da questo Collegio, compiuti gli studi, le allieve passano all’Università locale per i corsi superiori, e ogni anno le suore possono vantare ex-allieve che si sono laureato in medicina o in lettere col massimo dei punti. Ma bisogna andare alla Santa Infanzia, a West-Point, il quartiere popolare e insieme dei bagordi di Hong-Kong, per conoscere le suore addette all’accettazione e alla cura dei bambini abbandonati. Anche qui la preposta è una suora lombarda, piena di energia e di bontà. Ella mi spiegava come le madri cinesi non manchino di immenso amore per i figli, fino a sacrificare estremamente la propria vita, e come solo per superstizione esse abbandonino i figli ammalati, convinte che questi portino il male in casa anche per gli altri. Le stanze erano piene di culle, la suora s’era messa a passare la visita, per raccogliere i bambini che già erano morti. Altri avevano tutto un aspetto cadaverico, ma ella li strofinava alle guance e assicurava che erano caldi, e poi con un impeto di gioia accennava alle labbruzze pallide che ritornavano a fremere ad un respiro. I morti venivano messi in una cesta. Figli dei coolies, degli abitatori del sampans e di tutta la più misera gente di West-Point! Informi esseri, a cui la vita veniva negata dalla quotidiana opprimente fatica dei padri e dalla loro miseria passata come un elemento di morte nel sangue. E suor Vincenza all’Ospedale di San Michele a Pechino? La ricordano e la ricorderanno per lungo tempo anche i nostri marinai di guardia alla Legazione. E’ la loro buona nonna; ma è del ‘900, dal tempo della guerra dei Boxers, che suor Vincenza è la buona sorella per i nostri soldati. Ora, ecco vengono a consigliarsi da lei per le spese da fare. Ella dona loro le medagliette; riceve nella farmacia dell’Ospedale. Il cappello bianco di tela inamidata coi grandi alettoni alle parti inquadra il suo piccolo volto nobilissimo. Il giorno prima erano ripartiti per l’Italia i marinai che avevano finito il loro servizio; ella sperava vederli passare per la strada sottostante e poter loro dare l’ultimo saluto dalla finestra, e attese a lungo e invano: fecero altra strada. La sua memoria è tremendamente minuta; ricorda episodi tristi e lieti dell’assedio dei Boxers come avvenimenti di ieri. Si trovava al Pe-tan, alle Missioni francesi, difese anche da nostri soldati, contro l’assedio dei Boxers che durava da mesi. Ogni giorno scoppiavano delle mine nelle gallerie scavate sotto le fortificazioni. Il volto le impallidisce e la voce le trema quando viene a descrivere come una mina seppellì i nostri soldati ed ella, coi superstiti, si precipitò subito per dissotterrarli: «Si sentivano le loro voci invocare!» e tutti poterono essere salvati. Ricorda i nomi, gli aspetti, le parole dette.
Tutti le vogliono bene, tutti vengono a visitarla, a godere del suo sorriso triste tra la forza d’animo che ancora la sostiene, tutti, dai marinai alle signore di ministri stranieri. Queste suore italiane in opera di Missione furono per noi inaspettate in Cina, ma non se ne son potute vedere altre ancora che impavide vivono in località assai più aspre.
Dei missionari italiani vecchi e giovani non è qui possibile distesamente parlare quanto meritano. Essi indirettamente fanno un grande bene alla nostra Patria e senza frammischiare la politica alla fede, il che danneggerebbe l’una e l’altra. La loro opera puramente di carità e spirituale è talmente scevra da realizzazioni egoistiche che i Cinesi riconoscenti, rendendosi ragione al di là dell’atmosfera religiosa di quale sia la loro terra natale, si fanno di questa un’opinione ben profondamente rispettosa. Ho percorso a Macao una strada assieme ad un padre Salesiano italiano e sulla porta delle varie botteghe di sarti: e di calzolai o d’altro mestiere si affacciavano i Cinesi proprietari, ex-allievi della scuola d’arti e mestieri diretta dai nostri Salesiani, e tutti salutavano con sorriso di gratitudine. E che dire di questa scuola dove gli allievi in gran parte sono figli non solo di buddisti non convertiti, felici che essi siano educati dai Salesiani, ma perfino di ufficiali dell’armata comunista del generale Chang-Fat-Fui!
Dopo questi Italiani, quelli che subito inducono all’ammirazione sono quelli impiegati nelle dogane cinesi che funzionano sotto controllo internazionale. Alcuni sono ex-ufficiali che hanno partecipato alla spedizione del 900: costoro con trent’anni di Cina sono riesciti ad occupare i più alti posti di questo ramo importantissimo dell’amministrazione. Ma non sono semplici posizioni incanalate in un’attività quotidiana metodica e grigia. Uno di questi è il signor Torresani, capo stimatore delle Dogane di Sciangai; egli si è segnalato ai competenti internazionali quale autore di un libro: Handbook on CIassification of Piece Goods, di capitale importanza per la classificazione della qualità delle stoffe. Un altro è il signor Raiteri, preposto ad ufficio importante nelle Dogane di Canton, il quale, finito il suo lavoro d’ufficio, tiene in cinese dei corsi di istruzione in materia doganale ai Cinesi e conosce così bene la lingua da essere egli stesso un creatore delle nuove parole cinesi necessarie per esprimere quanto non era mai stato prima nell’uso di questo popolo. Per esempio la parola atomo, tanto ricorrente nel campo dell’analisi chimica delle materie prime, è stata da lui tradotta con altra cinese che corrisponde a elemento originale. Altri sono dislocati presso le dogane dei grandi fiumi o in piccoli porti lungo il Mare della Cina: questi in genere sono i giovani che qui in questi posti d’inferno tra pirati e comunisti iniziano la loro carriera. Ho conosciuto alcuni di costoro e mi sono apparsi giovani serissimi, economi, miranti al posto elevato raggiungibile solo in baso al merito e alla competenza, tesi nello sforzo difficile tra la concorrenza degli altri impiegati di ogni nazione e ammirevoli per la costanza e la resistenza tra i disagi che saranno ripagati un giorno solo in minima parte dal lucroso stipendio.
Altri Italiani si trovano a capo di uffici postali in province lontanissime verso i confini del Tibet. Uno di costoro si trova a Cengtù nel Zeciuan; e di un suo viaggio d’ispezione nella remota provincia ha fatto per il Bollettino della Camera di Commercio Italiana di Sciangai un’ottima relazione degna di attento studio e attraentissima per gli episodi narrati. Altro Italiano, il signor Pezzlni, si trova a comandare un piroscafo in navigazione sul corso superiore del Fiume Azzurro.
Uomo intrepido è quasi quotidianamente, solo europeo, alle prese con bande di pirati che s’intrufolano nella terza classe del piroscafo per svaligiare al momento opportuno i passeggeri.
La Cina non è un Paese che possa accogliere la mano d’opera italiana: ogni uomo colà esistente può apparire, tanta è la sua frenesia al lavoro, come una divinità indiana dalle molte braccia. Ma sebbene piccola, la nostra colonia di commercianti e di industriali è delle più scelte, delle più probe e delle più ispiranti fiducia, tanto vero che in Sciangai è quasi proverbiale che bisogna essere Italiano per godere del credito della più grande Banca inglese dell’Oriente: l’Hong-Kong Sciangai Bank. Primeggia il cav. Fumagalli, presidente della Camera di Commercio italiana, espertissimo nel ramo della seta. Egli ha suggerito al Governo di Nanchino la costituzione d’un Istituto per lo studio del miglioramento della produzione della seta. Istituto di cui egli si trova a capo. Questo Istituto provvede alla selezione della semente, all’introduzione di metodi moderni in tutta la produzione; e non poche sono le lotte che deve sostenere per vincere l’apatia dei Cinesi radicata nei sistemi secolari e così pure la loro diffidenza, non potendosi essi rendere ragione di tanta generosità data puramente per amore del progresso. Ma un industriale cinese proprietario di una filanda di circa seicento fusi mi asseriva entusiasticamente che in base al contributo dato da questo Istituto egli ha visto la produzione aumentare del 30-40 per cento.
Il centro più importante di Italiani si trova per ora limitato a Sciangai, ed è doloroso vedere altre piazze importantissime completamente deserte, quasi fossero ritenute inospitali e ultra-lontane dall’Italia. In verità noi siamo ancora poco organizzati per commerciare verso questi lidi: si ignorano le usanze, i bisogni e persino la geografia di questa parte del mondo enormemente importante. Consoli nostri mi riferivano come sovente dall’Italia si scriva: Sciangai (Giappone); come alcune ditte mandino i loro rappresentanti con esigue diarie e con cataloghi scritti in italiano, e come per mancanza di una scelta categoria di rappresentanti e per errato criterio di economia grande parte delle nostre merci arrivi qui a mezzo di intermediari stranieri.
Ma nella piazza di Sciangai il commercio di alcune nostre ditte è assai bene organizzato con personale italiano intelligentissimo e magnificamente rappresentante la maggiore nostra possibilità futura. Sono questi Italiani giovani ex-combattenti, che ancora nel loro aspetto rivelano le caratteristiche dell’arma nella quale hanno servito. E non mancano gli audaci, quelli dominati dal demone dell’avventura.
E voglio descrivere uno di costoro venuto qui trent’anni fa, degno d’essere vissuto da Conrad. Egli, d’umilissima origine, addetto presso una filanda in una cittadina padana, un bel giorno assieme a un compagno progetta, d’andare in Cina. Partono con pochi denari e una lettera di presentazione per il console di Sciangai. Vanno a Marsiglia in bicicletta e s’imbarcano come passeggeri di ponte portando seco le biciclette. Arrivati a Sciangai nel momento dell’acquisto dei bozzoli, vengono subito incaricati di recarsi nell’interno del Kiang-su per farne acquisto. Partono assieme ad altri acquirenti di ogni Nazione portandosi dietro ognuno le pesanti casse cariche di «taels» d’argento. Egli appena arrivato nella zona produttrice s’accorge che la produzione è meravigliosa e tanto abbondante da poter bastare per tutti gli acquirenti secondo la disponibilità d’argento portata seco: però lascia comperare gli altri ed egli se ne sta in disparte.
I contadini, conclusi gli affari con gli altri, venivano a pregarlo di comperare; egli sapeva che per gli altri prima d’andare a Sciangai e di ritornare portando altro argento sarebbero passati troppi giorni. «Io compererò – rispondeva, – ma a questo prezzo». Ed era quasi la metà di quello offerto dagli altri. Riescì a concludere e ritornato a Sciangai il suo nome s’impose d’un baleno. Ebbe la direzione d’una filanda, presto ne divenne il proprietario. Ora la sua posizione commerciale è tale che gode il massimo credito tra i commercianti internazionali. E recatomi a chiedere di lui allo Sciangai-Club, appena proferito il suo nome, ho visto i «boys» cinesi, generalmente tanto difficili a scomporsi, agitarsi in tutte le direzioni per cercarlo come se si fosse trattato d’un capo potente. Forte, squadrato sulla linea degli uomini liberi, dicono che egli sappia appena scrivere, ma nel Club si comporta con la disinvolta eleganza d’un Lord e la sua unica afflizione, così egli mi diceva, è di non saper come impiegare le sue rendite. L’Italia ha la bellezza di queste forze individuali. Che cosa importa che non si abbiano né oro né materie prime? Abbiamo la possibilità d’avere di questi uomini i quali poi sono quelli che danno effettivamente il valore all’oro e alle materie prime e più ancora sono essi che li creano.
In Cina, l’Italia esiste, modestamente, ma ottimamente rappresentata. È un semplice nucleo che comprende persone dello spirito, dell’arte, della scienza. dell’Industria e del commercio, in forma eccezionale; e con l’avvento di tempi più propizi sarà sullo stampo di questa base già esistente che bisognerà plasmarsi per una maggiore conquista.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 15/10/1930
Immagine in evidenza: Chinese painting of Macao from the 19th Century, oil on canvas. Exhibit in the Asian Civliisations Museum, SIngapore (fonte: Wikimedia Commons)