Nell’arco tra Venezia e Trieste si stende uno fascia costiera di grande interesse per diversi aspetti. È una terra che per lunghi secoli è sempre stata incerta tra le alluvioni dei fiumi prossimi alla foce, tra lo stesso mare che vi sopravvalse per abbassamenti tellurici e tra la furia delle invasioni barbariche che distrusse quanto i romani avevano costruito di solenne. I romani sfruttando i corsi navigabili di quei fiumi, avevano costruito nel retroterra, in prossimità del mare, comodi porti al sicuro dai venti e città come Altino, Eraclea, Aquileia, Concordia Sagittaria, Petronia, che erano floridissimi empori e popolatissime. Di queste città alcune hanno ripreso gli antichi nomi nel risorgere come nuovi villaggi, ma si può individuare l’antica sede solo se, sotto la coltre dei campi, vengono scoperti mosaici di palazzi, di terme e di templi. Altre sommerse dal mare lasciano affiorare blocchi di muraglie quando la marea si fa bassa, altre invece, come Aquileia, si vanno interamente rivelando nella loro magnificenza.
Più interessante è quanto venne sovrapponendosi sulle città distrutte, durante il fiorire della civiltà bizantina, dopo il crollo della civiltà romana. È stato il mare, questa grande strada naturale di comunicazione, a portare dall’Oriente le forme e il gusto della civiltà di Bisanzio. Giunse sugli scafi leggeri dei navigatori veneti, i quali dovevano essere estremamente audaci e maturati da una estrema volontà di vivere sul mare, dopo che la terraferma si era fatta malsicura per le invasioni e per gli sconvolgimenti fluviali. Questi navigatori irrequieti portarono dall’Oriente su queste spiagge i fregi e lo stile sorti lungo il mare di Grecia per costruire le cattedrali che ancora sussistono. Fu come un profumo di altre terre portato nell’arco finale dell’Adriatico, come una schiuma salsedinosa, come rotoli di alghe che vengano ad arenarsi dopo il lungo lavorio delle onde. Non si può capire l’esistenza di Ravenna se non si raccordi questa città a Concordia Sagittaria, a Caorle (l’antica Petronia) e ad Aquileia, non quella romana dissotterrata, ma quella della cattedrale dei patriarchi.
Questa fascia costiera andrebbe tutta unita a Ravenna in un solo itinerario, ed ha la stessa fioritura nell’arte bizantina, omogenea, come le pinete che un tempo allignavano lungo il mare in proseguimento da quella ravennate, fino all’Isonzo. Fa certo una grande impressione arrivare a Concordia Sagittaria e dopo avere visto le pile per l’acqua santa ricavate da capitelli di colonne romane o scolpite con motivi intrecciati di pesci di un’arte che sembra paesana, accorgersi del piccolo battistero che potrebbe stare attiguo al mausoleo di Galla Placidia. Oppure arrivare a Caorle e vedere ai lati della porta maggiore della cattedrale due bassorilievi di santi immessi nella parete coi loro nomi incisi In greco e accorgersi che quel marmo è lo stesso, caldo e pastoso, usato da Fidia e da Prassitele. Altrove vi è una soglia ricavata dal fregio di un tempio e quasi dovunque gli schemi delle decorazioni romaniche e bizantine a fantasiosi intrecci come preannunci di quei merletti che si facevano nei paesini lagunari di Venezia. Accanto alla cattedrale di Concordia Sagittaria un mosaico romano è riemerso alcuni metri sotto il livello della cattedrale e testimonia che dopo le distruzioni dei barbari sono subentrate le alluvioni a cancellare una civiltà per favorire la sovrapposizione di un’altra. Queste civiltà che crescono e decadono per nuovamente allignare sullo stesso terreno sono come le vegetazioni arboree, quando, all’esaurirsi di certi elementi nutritivi, dopo secolari ramificazioni di abeti, subentrano i larici e dopo altri secoli questi lasciano il posto ad altri alberi diversi.
L’interesse è altissimo nel visitare questi luoghi, il procedimento vitale degli uomini ha ritmo delle piante e come queste variano il paesaggio col colore delle loro foglie, quelli lo variano con l’aspetto architettonico e artistico delle loro civiltà. Quasi per meglio sentire queste sovrapposizioni e queste variazioni, entrando nella cattedrale di Caorle l’organo innalzava alle navate il suo grande afflato nella chiesa deserta. Si suonava proprio per evocare il passato e le colonne di marmo, le antiche pietre. i fregi e le piastre dorate e sbalzate dell’altare stavano ad ascoltare le vicende della loro storia. La musica che ora era di Haendel e ora di Bach, distraeva dal tempo presente e riportava come un’onda lontano dalla spiaggia verso il grande largo del mare. Quello che risultava supremamente immediato era la constatazione che l’Oriente era vicino più di quanto si fosse mai immaginato. E si era avvicinato in un’epoca in cui lo spostarsi, il viaggiare e il trasportare non erano facili, ma la distanza era stata vinta dalla viabilità del mare e dalla audacia dei naviganti. A questi uomini si imponeva di favorire il connubio delle civiltà con altre terre, come ai venti che sogliono trasportare i semi di piante e di fiori da una sponda marina a quella opposta e oltre. Impera la stessa volontà di diffondersi e di abbellire la terra.
Per giungere a queste antiche città si attraversa quella parte bassa della pianura veneta, resa opulenta dalle bonifiche e dal corso impigrito dei fiumi che vanno verso la foce. Sono terre ampie con rare case di contadini, perché vengono coltivate con grandi mezzi meccanici da aziende organizzate. La terra è nera, perché macerata dalle alluvioni, e dà con abbondanza ogni prodotto, qui ci s’accorge che questi campi lunghissimi sono ancora la sola riserva destinata a nutrirci, mentre altrove la terra si suddivide in piccoli poderi per bastare solo a chi la lavora. Gli antichi canali che portarono i fregi di Bisanzio sono ancora navigabili e la grande spiaggia marina, da Grado fino a Venezia, ha rivelato in questi anni un altro destino, quasi come il sopraggiungere di una nuova civiltà che la rinnovi.
È la spiaggia di un mare caldo, la più vicina al centro dell’Europa. Sono sorte strade dovunque e acquedotti come essenziale sostegno alle comunicazioni e alla vita. Queste strade raccordano quelle spiagge ad altre strade che salgono verso il Settentrione e valicando le Alpi portano all’Austria, alla Germania, alla Svizzera, alla Danimarca. Quegli abitanti che nei loro paesi hanno un’estate che dura venti giorni, qui trovano le condizioni di godere del mare da maggio fino agli ultimi di ottobre, e scendono come nuove benefiche invasioni. Percorrere queste spiagge fa pensare alle terre dell’oro quando si scoprivano nuove vene. Da una stagione all’altra nel sempre crescente afflusso di forestieri, sorgono nuovi alberghi, si demoliscono vecchi abituri, si costruiscono pensioni moderne, altre case si sistemano meglio, si stendono strade lungo le spiagge, tutte le iscrizioni dei negozi si traducono In tedesco o In francese. I villaggi ritornano città. Si scopre un’animazione in tutti come se la vita dovesse avere altro corso, altra fortuna. A una vita di abbandono se ne sovrappone un’altra di lavoro e di guadagno, tutti si industriano per accogliere felicemente gli ospiti stranieri. Anche il nucleo dei pescatori, quello delle lontane origini, si è risvegliato come se un nuovo Oriente sia venuto ad attrarre le loro prue e il mare offre con abbondanza i suoi frutti. Questi naviganti adriatici non devono essere mutati dagli antichi: arsi dal sole e dalla salsedine, neri alle mani come artigli, potenti nelle spalle e nelle lunghe braccia, quando arrivano con le barche colme di pesce hanno lo sguardo infantile e sorridente, conservato intatto dal mare.
Giovanni Comisso
da la Gazzetta del Popolo del 10/05/1950
Immagine in evidenza: Series Gorz 674B. Oilette postcard view along the beach in Grado (Wikimedia Commons)