Il saldatore del Vajont: anche la memoria ha bisogno di "manutenzione". Intervista a Antonio G. Bortoluzzi

Il saldatore del Vajont: anche la memoria ha bisogno di “manutenzione”. Intervista a Antonio G. Bortoluzzi

Come è possibile raccontare una storia così grande, così terribile senza utilizzare qualche facile stratagemma per istigare la lacrima facile, senza far leva su qualche effetto speciale che strizza l’occhio al lettore?
Raccontare l’orrore del Vajont è qualcosa di complesso, verrebbe facile spingere sulle immagini più tragiche, mostrare, anche solo a parole, la devastazione creata dall’onda d’acqua che ha distrutto paesi e vite. Forse è questa la via più facile, far indignare l’autore.
Antonio G. Bortoluzzi però non è uno scrittore normale, è un artigiano della parola, una persona che alla narrativa è arrivata attraverso un percorso diverso da quello che accompagna molti scrittori della sua generazione. Le parole per lui sono materia viva e “Il saldatore del Vajont” non fa che mostrarcelo ancora una volta.

Una gita alla centrale in grotta di Soverzene è il pretesto per raccontare un’ombra che aleggia sopra le teste degli abitanti di quelle zone martoriate. Durante un incontro, il narratore di questo romanzo, appunto il saldatore, dice a un amico di non essere mai andato a vedere la centrale elettrica. L’amico gli risponde che quella che non ha mai fatto in realtà è una visita che, almeno una volta nella vita, va fatta. Al lettore viene da chiedersi subito perché? Per quale motivo quella visita è così importante.
Presto ci si accorge che non si tratta di una pura e semplice gitarella in cui si può restare indifferenti a questo o a quel dettaglio di una costruzione imponente, ma le pagine del libro iniziano a raccontarci un pellegrinaggio in una cattedrale destinata a nessuno e che, invece, a causa della catastrofe di sessant’anni fa, viene mostrata al pubblico.

È questo il punto di vista diverso che Bortoluzzi dà al suo libro. “Il saldatore del Vajont” non parla esclusivamente di ciò che è successo la sera del 9 ottobre 1963, ma parte da un momento antecedente. La diga, volenti o nolenti, è un monumento alla grandiosità dell’ingegno umano, un inno al progresso e la fotografia di un preciso momento storico in cui tutto sembrava possibile e il futuro sembrava un orizzonte roseo a portata di tutti.
La diga è anche il simbolo della fiducia che la gente di montagna ha riposto nelle istituzioni. L’Italia, uscita malconcia dalla Seconda Guerra Mondiale, arriva agli anni sessanta di slancio. “Il miracolo italiano” è sotto gli occhi di tutti, è qualcosa di inarrestabile e la diga del Vajont promette più elettricità per tutti, promette energia a Porto Marghera per aumentare la produzione, dare lavoro alle persone, dare benessere alle famiglie. Tutto ciò non può essere un male. Costruire una diga sulle pendici del monte Toc non può essere sbagliato.
E invece lo è, il progresso viene messo da parte, la cupidigia prende il suo posto.

Bortoluzzi, attraverso le parole piene di ammirazione del saldatore ci porta in un lungo pellegrinaggio attraverso gallerie affrescate con scene mitologiche e a prodigi della tecnica fatti per durare per sempre, ma è la pulizia di alcune saldature, la perfezione del loro disegno a farlo restare basito. Si chiede perché, lì, nella profondità della montagna, in un tunnel che nessuno avrebbe mai dovuto vedere, l’essere umano ha lavorato con così tanta perizia ed è stato in grado di produrre bellezza.
E io penso che in quel momento, anche chi aveva un ruolo marginale, abbia voluto dare il proprio contributo alla costruzione che avrebbe reso orgoglioso il nord-est. Volevano essere parte della grandezza e della bellezza che stava per garantire il benessere a milioni di persone.
E ora mi chiedo se, dopo ciò che è successo quella sera, tra chi ha contribuito alla diga non sia serpeggiato un senso di colpa inutile, inappropriato, ma comunque velenoso.

Bortoluzzi, con fare calmo e pensoso costruisce un romanzo che procede in due direzioni. Da una parte il viaggio a tappe che il protagonista compie tra le varie strutture legate alla costruzione del Vajont, ma dall’altra, in determinati momenti, la narrazione si sposta sulla vita del protagonista stesso. Sono piccole sacche di esperienza quotidiana che a poco a poco si espandono e mettono in risalto la crescita emotiva delle persone che vivono ai piedi della diga. I giochi in mezzo ai boschi, la paura dei mostri dell’acqua che attirano a sé i bambini cattivi come quelli buoni, diventano storie personali che si intrecciano alla storia collettiva. L’impressione che se ne trae è che nessuno può crescere svincolato dalla presenza di quella parete di cemento che guarda tutti dall’alto, che è riuscita a resistere a un impatto decine di volte più potente di quello per cui era stata progettata. Le due strade si intrecciano proprio come le due narrazioni del romanzo e danno una profondità ancora maggiore al tragico evento. A queste linee narrative si aggiunge il pudore con il quale vengono raccontati i ricordi di alcuni superstiti alla tragica ondata devastatrice. Persone scampate alla morte per puro caso, per fortuna, e che hanno dovuto fare i conti con il senso di colpa di essere vivi mentre a pochi passi da loro famiglie intere sono state cancellate.

Sembrerebbe che una distruzione come quella della sera del 9 ottobre 1963, capace di annientare in pochi secondi paesi interi, di polverizzare le persone, di dilapidare un’intera generazione sia destinata a non sparire mai dalla memoria. Eppure, proprio come dice il narratore raccontando un fatto che vede per protagonista un operaio che come unico difetto ha quello di non essere del posto, la memoria non è fissa, immobile, stabile. Proprio come le turbine all’interno della centrale di Soverzene, anche la memoria ha bisogno di un po’ di manutenzione periodica per poter durare per sempre. “Il saldatore del Vajont” di Antonio G. Bortoluzzi fa parte di questa manutenzione.

Il rischio di dimenticare le influenze che hanno portato alla tragedia è dietro l’angolo e dimenticare gli errori significa ripeterli.
Gianluigi Bodi

L’intervista

[Gianluigi Bodi]: La chiave con la quale hai deciso di raccontare il tuo Vajont è molto particolare. Non hai voluto demonizzare la costruzione in sé, non ti sei scagliato contro il progresso, ma hai cercato di placare il rumore che spesso si alza attorno a quell’evento tragico e sei partito da una base di rispetto, come hai trovato la tua chiave di lettura di quegli eventi?

Antonio G. Bortoluzzi; Ph. S.Mognol

[Antonio G. Bortoluzzi]: Il saldatore del Vajont è un uomo nato dentro il mondo contadino di montagna (che si avviava alla scomparsa) e ha vissuto tutta la vita lavorativa nel mondo industriale. Sa cosa sia la povertà, l’emigrazione, i lavori pericolosi e mal pagati. Negli anni ’50 la centrale, la diga, le gallerie,  l’energia idroelettrica rappresentavano un lavoro vero dentro un’idea di progresso economico e sociale. E questo non va dimenticato. Del caso Vajont sappiamo le gravissime responsabilità di chi ha costruito e collaudato, di chi non ha controllato. Anche se le pene sono state esigue e i condannati solo due (in un impianto accusatorio iniziale che vedeva ben undici imputati) si è accertata la prevedibilità dell’evento catastrofico e quindi il dovere, di chi era ai massimi livelli direttivi, di salvare le vite umane. 
Oggi il disastro del Vajont è ancora davanti a noi, con la consistenza imponente della diga e ci interroga sul rapporto tra natura e tecnica, con la potenza sempre maggiore di quest’ultima. 

Il concetto di memoria è sempre presente nei tuoi scritti. Qui a un certo punto fai uscire dalle tue pagine un’idea molto forte. La memoria non è una cosa granitica destinata già da sola a durare per sempre, ha bisogno di “manutenzione”. Puoi elaborare ulteriormente questo concetto?

La memoria di cui parlo, non è il semplice ricordo individuale, ma una dimensione collettiva, e mi piace immaginare che dalle targhe commemorative, dalle lapidi, dai monumenti, dai libri possa riaccendersi la memoria di cittadini, tecnici, studiosi, politici, artisti… Direi così: la memoria non è qualcosa che accade, ma qualcosa che dobbiamo far accadere.

In questo romanzo è palpabile il rispetto che nutri nei confronti delle cose fatte dall’uomo con le proprie mani. È qualcosa che ho visto anche nei tuoi libri precedenti, ma mi pare che ne “Il saldatore del Vajont” il tuo sguardo non si soffermi più solo ed esclusivamente su un certo tipo di fatica legata alla terra e alla sopravvivenza, ma su un terreno diverso più legato al progresso e alla costruzione del futuro. Che ne pensi?

C’è del lavoro da fare nel nostro Paese, manuale e intellettuale. Parlando di infrastrutture e pensando al crollo del ponte Morandi a Genova (che è citato anche nel Saldatore) dobbiamo avere chiaro che le opere già esistenti hanno bisogno di manutenzione, di investimenti. Dal mio punto di vista non è il momento di nuove opere faraoniche, ma di un assiduo lavoro di riparazione, rifacimento, e dove necessario, di demolizione. E il progresso oggi passa anche attraverso la protezione dei beni ambientali, naturali, paesaggistici.

Il finale del libro, una visita del protagonista a Fortogna, al cimitero delle vittime del Vajont, si sofferma sulla contemplazione e il silenzio, quasi una presa di coscienza che tutto ciò che gli è stato raccontato ha un riscontro materiale e tangibile. Ti chiedo se secondo te il silenzio è necessario tanto quanto la parola quando vogliamo provare a capire ciò che è avvenuto il 9 ottobre del ’63?

Ho esperienza di superstiti che hanno voluto raccontare, altri che lo hanno fatto dopo decenni. Ma c’è chi non è mai riuscito a dire ciò che gli è accaduto, ciò che ha provato, nemmeno in famiglia. Il silenzio è una via muta per cercare l’oblio e per provare a vivere: questo sentimento va rispettato. Aggiungo anche questo: ciò che accade al protagonista del romanzo nel Cimitero monumentale, là in mezzo alle lapidi che ricordano le 1910 vittime innocenti, è la comprensione che ogni destino è collettivo.

Il saldatore del Vajont
di Antonio G. Bortoluzzi (Autore)
Editore: Marsilio (5 settembre 2023)
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 144 pagine
ISBN-10: 8829719560
ISBN-13: 978-8829719563
Peso articolo: 180 g
Dimensioni: 14.1 x 2 x 21.6 cm

Antonio G. Bortoluzzi è nato nel 1965 in Alpago, Belluno, dove tuttora vive. Finalista per due volte (2008 e 2010) al premio Italo Calvino, nel 2010 ha pubblicato Cronache dalla valle, nel 2013 Vita e morte della montagna, nel 2015 Paesi alti, con cui ha vinto il premio Gambrinus-Giuseppe Mazzotti nella sezione Montagna, cultura e civiltà ed è stato finalista al premio della Montagna Cortina d’Ampezzo e al premio letterario del Cai Leggi montagna; i tre romanzi, pubblicati da Edizioni Biblioteca dell’Immagine, sono raccolti nell’antologia dal titolo Montagna madre, trilogia del Novecento (2022). È membro accademico del Gruppo italiano scrittori di montagna (Gism) e suoi articoli sono pubblicati su riviste nazionali e sulle pagine culturali dei quotidiani del Nordest. Nel 2023, sempre per Marsilio, è uscito Il saldatore del Vajont.

Immagine in evidenza: La diga del Vajont nel 1963 pochi mesi prima della tragedia (foto di Venet01, Wikimedia Commons)

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