Giovanni Comisso

Comisso contro i critici terroristi difende Fogazzaro e i suoi veneti

La sua casa di campagna – ricordate il titolo di uno dei più bei libri di Giovanni Comisso? – non è più in località Conche di Zero Branco. Là lo scrittore del trevigiano era vissuto, tra un viaggio e l’altro, per vent’anni. Era stata la lunga, delibata avventura contadina, o agreste, dell’avventuroso, mobile, incostante e vagabondo Comisso. Quando vorrà ricordarcelo, gli conosceremo un abbandono dell’animo che in più di un momento ce lo farà nuovo, persino inedito nella commozione con la quale egli rientra nella memoria, considera le cose, medita sull’essere; temperata l’antica anarchia dei sensi, intenerito il cuore a una comprensione umana che per il passato era soffocata – o pareva -dall’avida fisicità, più o meno poeticamente incosciente e irresponsabile, dal volere conoscere la natura e in essa conoscersi senza remore e controlli.

La casa di campagna è oggi un villino alla periferia di Treviso, fuori da Porta San Tommaso, in località Santa Maria del Rovere. Qui lo “scrittore da vela”, come lo salutava al suo esordio Pietro Pancrazi alludendo alla sua passione per il mare e contrapponendolo agli scrittori da scrittoio (certe indimenticabili pagine di Gente di mare e Il porto dell’amore, insegue un miraggio di vita contadina in un suo orticello che coltiva egli stesso nelle pause del lavoro e che contempla dalla finestra dello studio ogni volta che alza gli occhi sulla pagina in gestazione.

Leo Longanesi nel suo studio a Milano (1956, Wikimedia Commons)

Comisso non fa torto alla rinomata cucina trevigiana che il suo amico Bepi Mazzotti, paladino delle Ville Venete, ha portato in questi anni ai fasti di un Festival pantagruelico. Del resto è sempre stato un buongustaio e un goloso in tutto. Ha viaggiato molto, l’Africa, l’Oriente, l’Europa, viaggia tutt’ora, ha una villa al Circeo (di cui ha deciso di disfarsi: oggi è a Milano, domani a Roma, posdomani a Belgrado, però ritorna sempre a Treviso, è qui che lavora, è qui che i suoi amici più compagnoni scrittori poeti pittori, sanno cercarlo. Scrittore di pura razza veneta dei pochi che si siano fatti un linguaggio proprio senza venir meno ai caratteri comunicativi del parlare nativo, risolvendo anzi questo in lingua sciolta da forzature letterarie, non lascia la sua terra, soltanto qui lo conforta la sua più viva ispirazione. Ora che la Longanesi va pubblicando tutte le sue opere, alla lieta fatica dei libri nuovi (Cribo è il suo ultimo romanzo ma non si sa quando e se lo leggeremo in Italia…) accompagna la revisione degli antichi e giovanili con uno scrupolo quasi professionale, divertente in lui che è l’antiaccademico degli antiaccademici e poco o punto simpatizza con i filologi, specie con gli scrittori filologi. È fresca infatti la ristampa de Le mie stagioni, “riveduto e accresciuto” (vi troviamo inclusi anche Viaggi felici e Donne gentili), un libro che è un po’ la summa di Comisso, del suo autobiografismo aureo in chiare di candida malizia da cui si infiorato testimonianze su eventi e persone storiche – basti per tutte quella su D’Annunzio – e giudizi i quali, per la forma in cui vengono espressi, e immutabili umori che li ispirano, risultano personalissimi e tuttavia tanto credibili che lo storico di professione non debba tenere conto anche di essi.

Virgilio Scapin e Ugo Tognazzi nel film Il Commissario Pepe (1969)

Il giorno in cui andammo a trovarlo, era molto polemico. Già sere prima, durante un “Incontro con il lettore” organizzato a Vicenza nella nuova libreria del giovane narratore vicentino Virgilio Scapin, egli si era lanciato contro il terrorismo letterario facendo eco a una preoccupata pagina del “Diario italiano” di Arrigo Benedetti (“L’Espresso”, 2 agosto 63), e in particolare c’è l’aveva con Giorgio Bassani. La ragione? Un apprezzamento tutt’altro che lusinghiero dato – non richiesto – dall’autore de Il giardino dei Finzi Contini sugli scrittori vicentini ai quali Comisso, che vicentino non è, si trovava associato. Nel tessere l’elogio di un nuovo autore di sua scoperta e pubblicato in una collana da lui diretta, il Bassani, qualche mese prima che il libro andasse in libreria, sì preoccupava di far sapere (“L’espresso” 26.05.63) che il suo pupillo, “benché vicentino, niente aveva da spartire con la scuola letteraria che va da Fogazzaro a Piovene. Barolini, Comisso e Parise…, una scuola che, come si sa, ha mostrato fino alla nausea la putredine psicologica e morale protrattasi dalla controriforma in provincia, ma esibendo in questo delirio una sorta di autocompiacimento estetistico, metastorico”.

Giorgio Bassani nel 1974 (Wikimedia Commons)

Mentre Comisso, dal suo tavolino di lavoro, lo sguardo tagliente tra il verde e il cielo del suo orticello ci esponeva settarismo ideologico delle correnti romane, il suo punto di vista aspramente critico sulla attuale situazione letteraria (industria e pubblicità, critici asserviti, i premi svalutati, consorterie e cricche, di fronte al quale quello politico sarebbe all’acqua di rose, eccetera) riandavamo mentalmente le righe dove Benedetti immagina lo sgomento dello scrittore affezionato alla propria solitudine quando gli capita di leggere enunciazioni autorevoli e perentorie le quali dimostrano d’essere un vecchio arnese. ”Il nuovo terrorismo è fomentato da critici preoccupati non della buona o della cattiva letteratura che può trovarsi in un libro, ma dall’essere o non essere un libro tecnicamente aggiornato”.

Comisso è ben lontano dal sentirsi un vecchio arnese anche se si avvia – ma con che invidiabile freschezza fisica e agilità spirituale – verso i settanta. Lo infastidisce il torto fatto sopra tutto a degli amici, in fondo alla sua terra e, il padreternismo di Bassani in quanto espressione di una civiltà letteraria dissestata dei suoi valori e che il boom editoriale non fa che peggiorare nei suoi difetti.

Non è lecito dire cose del genere quando è ben nota l’alta moralità religiosa e civile che ha sempre ispirato l’opera di Fogazzaro, quando si potrà discutere la politica di Piovene, ma non si può negare il suo merito letterario che non ha nulla di immorale, quando Parolini e Parise rappresentino una corrente senza dubbio assai rispettabile, e non voglio parlare di me. Questa non è critica ma invettiva irragionevole.”

Io non faccio truffe letterarie, io lavoro con coscienza e onestà. Non sono metastorico, ma dentro la storia come lo dimostrano Le mie stagioni. Ci lasci in pace questo scrittore un poco untorello“.

Discorso è chiuso, nell’ultima battuta egli ha ritrovato il proprio furbesco buon umore, ride con il candore malizioso che ha saputo portarsi dentro, intatto verde pungente, dai giorni spericolati e dalle pagin della giovinezza.

Scavi archeologici ad Aquileia (foto di Zavijavah, Wikimedia Commons)

Ma il discorso torna a ravvivarsi a tavola dove ormai non c’è più il degno all’uso della nostra lingua, il Veneto. La cucina casalinga, il vino genuino della “marca gioiosa”. A un certo punto mi accorgo che l’ospite fantasioso mi ha fatto fare un balzo indietro di quasi due millenni. Siamo ad Aquileia nel primo secolo d.C. per dimostrare il primato dei veneti sopra un materiale di prova estremamente suggestivo: i busti funebri di recente rinvenuti in quei luoghi. Finalmente mi accorgo dove Comisso vuole colpire prendendo la mira da così lontano ed è quando mi dice che la genialità dei veneti fino ad allora era basata sul preciso e sull’approfondimento umano, che già da allora abbiamo la prova che una corrente veneta teneva testa e superava una corrente romana, rammollita di ellenismo, di decorativismo equivoco…
Altro che metastoria ed estetismo.
Gino Nogara

Pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il 7 agosto 1963
Immagine in evidenza: Giovanni Comisso

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