«Ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio, che gli somiglia e dove si sente bene», scrive Cognetti ne Le otto montagne, riconoscendo così la finestra da aprire per cambiare l’aria e rivolgere lo sguardo altrove, oltre le barriere del qui e ora, per abbracciare prospettive diverse di spazio e di tempo. Così come hanno fatto Francesca e Donata Demattè, figlie di Enzo, curando la mostra “Finestre in Val del Biois: Enzo Demattè. Note, racconti, poesia”, a Canale d’Agordo (BL) per iniziativa di Fondazione Papa Luciani e Fondazione Benetton Studi Ricerche. Un allestimento presso la Casa delle Regole e il MUSAL che fa conoscere le immagini colte in Val del Biois durante gli anni Cinquanta e fino ai primi anni Sessanta del secolo scorso da un Enzo Demattè allora ventenne.
Immagini e testimonianze che il futuro scrittore mentre camminava i sentieri, le strade, i paesi della valle, annotava negli inseparabili taccuini o, meglio, libri di marcia, come li chiama. Sulle paginette dei carnets annotati con una grafia limpida e chiara, viene registrato tutto ciò che lo sguardo e gli incontri con i valligiani propongono alla sua viva attenzione. In particolare, sono gli affreschi di santi sulle facciate delle case a colpirlo e a farlo riflettere sul legame originale che la reiterata presenza di San Rocchi, Sant’ Antoni, Madonne in trono con bambino gli suggeriva come espressione della cultura religiosa e artistica della Val del Biois.
«…l’affresco non vive separato dal resto della costruzione: vi è un evidente bisogno di avere vicini dei santi, di sentirli quasi tangibilmente nel riquadro dell’affresco. E da quei riquadri, come da altrettante finestre, i santi si affacciano variopinti come familiari, come comuni abitatori della stessa casa, sempre vigili che sporgono dalla finestra aperta con una precisa funzione di custodi…». (nota dal carnet 7, agosto 1953)
Queste alcune delle intuizioni del giovane camminatore che intravvede anche il destino al quale inesorabilmente la montagna e i suoi abitanti andranno incontro per non saper valorizzare l’insieme della loro cultura, delle loro colture, dei campi e degli orti terrazzati in quota, delle loro parlate, delle loro acque e dei boschi, abbagliati come sono solo dal turismo. Nelle note Demattè spiega a se stesso prima ancora che a noi, come disimparando le tecniche tradizionali e le molteplici attività, le diverse risorse del lavoro durissimo del contadino di montagna il montanaro fugge «el burt mal da la val», il brutto male dellavalle, una sorta di mal di montagna dal quale scappano soprattutto i giovani, poco disposti alle fatiche dei vecchi e più propensi ad abbandonare la valle per andare a vivere in pianura dove tutto sembra più facile.
Per arginare quella fuga e rivendicare dignità ai luoghi, ai mestieri, al mondo della valle, sui diversi carnets finiscono, anche numerose riflessioni toponomastiche e onomastiche, attraverso le quali si aprono anche oggi ai nostri occhi le immagini antiche di una valle che la mente di Demattè ridisegna e intende attraverso l’analisi dei nomi dei suoi paesi: Caviola “da cavìa che significa conca, cavità, avallamento” e Sappade che nel toponimo indica terre buone per essere zappate e quindi coltivabili; e infine Falcade, a significare quel luogo di terre adatte a ricche falciature. Gli esempi di spiegazione sono numerosi e costanti in tutti i taccuini, così che la Valle, percorsa dal torrente che Demattè collega nel nome a una voce preistorica che indicherebbe il corso d’acqua vero e proprio (riproposto anche nelle voci Boite e Blois, quest’ultimo un paese sopra Feltre) emerge nei suoi tratti costitutivi non solo nell’orografia delle montagne che la circondano:« Focobòn coi suoi Fochèt deriva da foch e vuol dire luogo bruciato, sterile e sassoso» ma anche attraverso i decori delle case, dei tanti ancora splendidi tabià, degli oggetti domestici e da lavoro esposti in mostra con i loro segn de ciasa.
Nel mostrare le testimonianze degli incontri e delle scoperte nella valle alpina in quegli anni Cinquanta, l’allestimento – con i suoi materiali e con gli eventi culturali che ci propone durante la sua permanenza estiva a Canale d’Agordo fino al 10 settembre – parla quindi di una trasformazione epocale nella storia della montagna in generale e della nostra montagna veneta in particolare, delle sue valli, dei suoi paesi, della sua gente, dei suoi paesaggi.
Ci porta quindi a conoscere la storia ricca e articolata della Val del Biois, di un territorio di scambio e di passaggio di culture per la posizione geografica che occupa. Una storia che abbraccia in termini originali non solo le arti figurative e musicali, o quelle gastronomiche e del folclore, ma anche quelle della lingua e del paesaggio, dell’economia e della società del nord-est dalla metà del secolo scorso ad oggi. Questa una fra le altre considerazioni che emergono dalle note di Demattè, dove scopriamo i tanti mondi di un passato frettolosamente abbandonato dagli abitanti delle terre alte insieme al senso di appartenenza che regolava la vita delle loro comunità.
Ma quelle note mostrano anche come allo scrittore non bastasse fermarsi ai lacerti culturali e come piuttosto amasse entrare nel corpo vivo della cultura montana. E così, attraverso i ripetuti incontri con i residenti e con gli artisti che via via scopre uno a uno essere numerosi e tutti attivi in valle, Demattè a sua volta apre finestre nella sua propria creatività, disegnando trame e orditi che diventano racconti come La valle coi santi alle finestre (1958, 1991), romanzi come Gente di Confine (1974, 2008), e poesia in dialetto agordino come Trei Orazhion (1974). È in questi testi che trova spazio anche la commozione autentica di fronte alla civiltà della montagna, la radice che alimenta l’impegno fedele nel tempo rivolto da Dematté alla valorizzazione e alla tutela di ciò che ancora si poteva salvare. Tanto è vero che nel 1997, per iniziativa del comune di Falcade, i valligiani gli offrono la cittadinanza onoraria, un modo per restituirgli l’interesse profondo e continuato nel tempo per le loro terre alte, per gli abitanti, i costumi, le tradizioni, la lingua, la cultura originali di un luogo eletto da lui a paesaggio dell’anima.
Un paesaggio che Massimo Rossi, responsabile della cartoteca di Fondazione Benetton Studi Ricerche, afferma si possa facilmente ricostruire per intero ancor oggi dalla descrizione che Demattè scrive nell’Introduzione del racconto La valle coi santi alle finestre, e che Loris Serafini Direttore della Fondazione Luciani definisce «cuore geografico delle Dolomiti, oggi patrimonio UNESCO».
Carlotta Vignati