Il Budda italiano di Pechino

Il Budda italiano di Pechino

Nei miei viaggi fuori dall’Italia ho avuto sovente occasione di incontrarmi con le nostre autorità diplomatiche. Nei primi viaggi ignoravo addirittura la loro esistenza, tanto mi sentivo come in una fuga selvaggia in cerca di terre nuove senza indicazioni prestabilite. Solo in Estremo Oriente cominciai ad avvicinare qualcuna di quelle autorità per coincidenze e anche perché in quei paesi talvolta era necessario ricorrere a esse per orizzontarsi. La prima che conobbi fu appunto per coincidenza, perché viaggiava con me sulla stessa nave e andava ad Hong Kong ad assumere il posto di console. Era un uomo triste e malaticcio, ma assai cordiale, non doveva essere sposato o doveva essere divorziato, certo era solo e lo sarebbe stato con maggiore tristezza in quella grande ed estranea città. Vi sbarcai con lui e mi raccomandò di visitarlo qualche volta. Vi andai giusto il giorno in cui il commodoro inglese, che governava l’isola, doveva venire a dargli il benvenuto. Il consolato italiano era in un appartamento d’una grande casa e non poteva presentarsi più miseramente. Ricordo mobili vecchi, informi e polvere intonati con la miseria fisica del console. D’improvviso il servo cinese venne ad avvertire che stava arrivando il commodoro.

Pechino – Tramonto sulla Città Proibita (foto di User kallgan, Wikimedia Commons)

Il console e il commodoro

Quando varcò la soglia dovette piegare la testa tanto era alto, tutto vestito di panno rosso attillatissimo sulla figura magra, dura, proprio come avesse ingoiato il manico della scopa, e ampi ricami d’oro a fogliami e a sigle volteggiavano sulle maniche. Anche il console indossava la sua divisa, ma questa sembrava di un servo e quella di un padrone, di un padrone di un grande circo equestre. Certo in quell’appartamentino quel commodoro appariva come una fiamma fra un mucchio di foglie fradice. A Pechino alla nostra Legazione trovai due funzionari, il principale mi accolse con questa frase incoraggiante: “Cosa viene a fare a Pechino? Quello che c’è da scrivere su questa città ormai l’ho già scritto tutto io”. Pensai doveva essere un poco strano e difatti subito dopo mi chiese senza alcuna diplomazia se sapevo quando sarebbe caduto il fascismo. L’altro invece mi divenne subito amico, era il delizioso Claudio Cortini, aveva già letto i miei primi articoli su quel viaggio ed era da tempo in attesa del mio arrivo per conoscermi. Era non solo un caro amico, ma sapeva per la sua intelligenza e per la sua spavalderia nel sopportare l’infelicità di essere grassissimo, rendersi simpatico a tutti: cinesi e stranieri. Già i ragazzetti cinesi quando lo incontravano per la strada si inginocchiavano facendogli adorazioni, come al Buddha vivente, per la sua grassezza. Dopo la prima visita, se ritornai alla Legazione fu per incontrarmi con lui col quale passai bellissime giornate.

L’altro Comisso di Pechino

Ritratto a carboncino del Cardinale Celso Benigno Luigi Costantini (collezione del nipote Giovanni Costantini – Busto Arsizio, VA – Italy, Wikimedia Commons)

Per conoscere qualcosa della Cina preferii invece frequentare la Nunziatura Apostolica, dove trovai Don Celso Costantini, Veneto anch’egli, che non rivedevo dal tempo di D’Annunzio a Fiume, dove era stato a reggere quella diocesi turbolenta in distacco da quella di Zagabria. Mi invitò subito alla sua tavola a mangiare il risotto coi piselli alla veneta e siccome il suo segretario aveva il cognome uguale al mio, disse appena si incominciò: “Tra quattrocento milioni di cinesi vi sono due Comisso e sono entrambi alla mia tavola”. Nelle nostre lunghe conversazioni mi illustrò profondamente la vita cinese e la situazione del paese e anche la politica svolta dalla Chiesa, in rapporto alle sue esperienze. Egli pensava che nel caos subentrato dopo la caduta del regime imperiale, non credendo più i cinesi nel patrimonio artistico e storico della loro vecchia patria, spettava alla chiesa salvarlo dalla dilapidazione e dalla distruzione, come aveva già fatto in Italia alla caduta dell’impero romano. Ancora, non si doveva lasciare alle varie Missioni costruire chiese o edifici religiosi secondo lo stile dei loro paesi d’origine, così da riescire doppiamente stranieri, ma impose di costruire secondo lo stile tradizionale cinese. Egli aveva anche fatto salire i sacerdoti cinesi agli alti gradi, prima riservati agli stranieri, e aveva escluso la Francia dalla protezione delle Missioni delle quali si serviva per infiltrazione commerciale. Volle che ogni missionario andasse in Cina soltanto col passaporto della propria nazione e sapesse di dover essere pronto al martirio, come i primi Padri della Chiesa. Un’opera così importante doveva essere fatta conoscere e promisi un articolo entro tre giorni. Nel pomeriggio del terzo giorno venne al mio albergo perché gli leggessi quanto avevo scritto e ne fu soddisfatto. Con uomini simili era edificante lavorare.

Tokyo – Palazzo imperiale e Seimon Ishibashi bridge (foto di Kakidai, Wikimedia Commons)

Mi scambiano per il vecchio Barzini

Quando andai a Tokyo, alla prima visita alla nostra ambasciata, nell’occasione di un ricevimento, mi si chiamò: signor Barzini, come se fossero ancora aggiornati al principio del secolo. Non vi sarei più ritornato se non vi avessi scoperto nell’umile segretario, Almo Melkay, una generosa cortesia e una stupenda sensibilità artistica. Diventammo subito amici, conosceva benissimo la lingua giapponese e mi fu prezioso, dedicandomi giornate intere per farmi avvicinare e comprendere la vita di quel popolo. Al mio arrivo a Mosca l’ambasciatore Cerutti, che era stato preavvertito, mi mandò alla stazione un funzionario per accompagnarmi all’ambasciata dove mi invitò a soggiornare. Stava per partire, trasferito ad altra sede, ma ebbe la compiacenza di intrattenermi a lungo per iniziarmi alla vita nuova di quel paese. Ricordo mi disse che come egli comunicava a Roma ogni novità organizzativa dei comunisti, veniva a sapere che subito si rifaceva altrettanto per i fascisti. Alla mensa di quella ambasciata si mangiava assai male e pochissimo, molte zuppe di cavolo, e si scusarono dicendo che dai mercati della città non si poteva avere di più.

Tempio di Artemide (Efeso), Turchia (foto di Adam Carr, Wikimedia Commons)

Un cognome umiliante

Dopo la guerra ripresi a fare miei viaggi e avvennero altri incontri con quelle autorità. Ebbi l’impressione che nel loro ambiente vi doveva essere una crisi, per così dire, di costume. Caduti il fascismo e la monarchia, le nuove autorità avrebbero dovuto avere uno stile nuovo, ma non riescivano a concretarlo, come non riescivano ad assumere quello della vecchia diplomazia, anteriore al fascismo, perché troppo giovani. Se invece anziani, erano indotti ad assumere con la più perfetta tecnica diplomatica il tono e il pensiero adattato ai tempi nuovi. In una città del vicino Oriente incontrai uno di questi funzionari che si vantava di essere riescito a costruire una chiesa nella sua sede e in quel paese infedele era la sola che funzionasse, a beneficio anche delle altre colonie cattoliche. D’altra parte egli si occupava per realizzare un suo sogno: di trasformare i resti del tempio di Diana di Efeso in una chiesa cristiana a memoria che in quel luogo era stato promulgato il culto della divina maternità della Madonna. A questi discorsi non riescivo a capire se egli fosse un funzionario del nostro governo o della diplomazia vaticana.

Ma di quali cose noiose sono obbligati ad occuparsi i nostri consoli. Un mio amico console mi scrisse che s’era presentato da lui un nostro emigrante, il quale chiamandosi di cognome: – Biscaro – gli aveva chiesto di fare la pratica per mutarlo, perché ogni volta doveva pronunciarlo gli procurava sottili derisioni che lo umiliavano. Il mio amico voleva gli trovassi un avvocato per fare le pratiche nella mia città che era quella natale dell’emigrante. Gli risposi lo consigliasse di mutare l’accento; qualche tempo dopo quando andai a trovarlo nella sua sede mi disse che quell’emigrante aveva risolto il problema diversamente: fuggendo in altro paese, perché aveva ingravidato una ragazza. Mentre stavo con lui nel suo ufficio, venne annunciata la visita di un indiano, un vero indiano col turbante, che presentatosi come uno studente, pretendeva il viaggio gratuito attraverso l’Italia per conoscere le sue opere d’arte, fino a Napoli dove si sarebbe imbarcato. Nel licenziarlo con molta gentilezza, dopo il rifiuto, mi disse che era una processione di postulanti simili e per digerirli si era guastato lo stomaco.

Residence of the Italian Ambassador, Helsinki (foto di Paasikivi, Wikimedia Commons)

Le 900 lire dell’ambasciatore

In un paese del Settentrione, non so per quale ragione pensai di telefonare alla nostra ambasciata, mi rispose una voce canora, chiesi se era un funzionario, mi rispose che era il cuoco, chiesi dell’ambasciatore, mi rispose che era andato a cavallo. Ritentai un altro giorno e mi rispose il cameriere, l’ambasciatore era andato ancora a cavallo, a ogni modo riescii di farmi fissare un appuntamento. Andai all’ora indicata, ma dovetti attenderne un’altra prima di essere ricevuto, in una stanzaccia che non era da attesa, perché l’ambasciatore stava nel corridoio col cancelliere a trattare il grave problema di come registrare 900 lire erroneamente rimborsate da un impiegato alla polizia locale, che le aveva pagate a un albergo di dove un italiano era fuggito senza saldare il conto.

Quando mi ricevette si scusò se poteva intrattenersi con me solo poco tempo, perché aveva un invito presso il più grande giornale di quella città per un banchetto in onore della stampa estera. Egli aveva già inteso il mio nome, sapeva che ero inviato da uno dei maggiori giornali nazionali, ma non ebbe minimamente l’idea di cercare di farmi subito invitare. Pensai fosse così veggente da avere capito non avrei accettato, perché quei banchetti mi danno in genere noia, ma poi parlando ancora mi venne il sospetto non lo avesse fatto perché egli era abbonato fedele a un altro giornale italiano, che si pubblica nella stessa città di quello che rappresentavo, e che di conseguenza era concorrente.

Rivalità o diffidenza

Ma quello che mi era toccato al Settentrione dell’Europa, mi toccò anche nell’Occidente. In una di queste sedi di rappresentanza diplomatica all’estero, seppi che vi era un mio vecchio amico che non vedevo da tempo e vi accorsi solo per riabbracciarlo. Dopo aver rievocato i tempi lontani, gli chiesi cosa facesse in quella sede: era addetto agli affari culturali. Allora gli dissi avrei desiderato mi facesse conoscere giornalisti e scrittori di quel paese. Era in rapporti con tutti, ma nicchiò dicendo che erano molto diffidenti. In quello, un suo collega socchiuse la porta per ricordargli che qualche ora dopo in un albergo vi era un ricevimento di tutta la stampa locale ed estera. Attendevo mi dicesse: “Vieni anche tu”. Invece mi invitò a uscire con lui, perché doveva andare a prepararsi per il ricevimento. Non riescii a capire questo comportamento verso un giornalista che veniva per fare il suo mestiere, forse per le diverse tendenze politiche della stampa italiana avevano avuto ordine di non compromettersi con alcuno. Non misi più piede in quella nostra rappresentanza diplomatica, ma ben diversa fu l’accoglienza del Nunzio Apostolico. Per rifarmi andai da lui, come a Pechino, appunto, perché Don Costantini mi aveva incaricato di portargli i suoi saluti.

La sede della nunziatura apostolica a Berna (foto di Krol:k, Wikimedia Commons)

Il Nunzio non ha fretta

La Nunziatura era una sede austera con ampi tendaggi rossi alle finestre, bella mobilia del Settecento e vecchi orologi sotto campane di vetro, che segnavano in ogni stanza puntualmente l’ora. E puntualmente il Nunzio mi ricevette nel suo studio. Fu un piacere supremo ascoltarlo narrare, con l’immediatezza degli ambasciatori veneti, vicende di storia di quel paese alle quali era stato testimone. Non aveva fretta di congedarmi, mi chiese se poteva essermi utile in qualcosa e mi offerse egli stesso una sua lettera di presentazione per qualsiasi alta autorità ecclesiastica di quel paese per visitare, in chiese o in conventi, biblioteche, musei, opere d’arte, anche i più riservati.

Non è questione di sollevare critiche mordaci verso quelle nostre autorità. Con qualsiasi governo sono sempre quello che sono, cioè in funzione di noi italiani che andiamo all’estero, e sono costretti a subire e a rispecchiare la nostra petulanza, la nostra lagna, la nostra malinconia che ci piglia, quando siamo fuori di casa, e che per quanto si vada a milioni oltre ai confini, non si vorrebbe mai essere costretti ad andarvi.

Giovanni Comisso

da Il Giorno del 14/10/1956

Immagine in evidenza: Foto di Sarbajit Sen

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