Chi scrive lo sa. I dialoghi possono essere il tuo peggior nemico, ma se riesci a trovare il modo per utilizzarli in maniera adeguata, senza farli risuonare falsi e artificiali, allora possono diventare il tuo miglior alleato nella costante battaglia ingaggiata con il lettore.
Quando, sfogliando le pagine di questo romanzo, mi sono accorto che i dialoghi erano una parte preponderante del testo, mi sono chiesto subito se l’autore fosse riuscito a farseli amici e la domanda è rimasta sospesa nell’aria per un po’, sostituita da un’altra che è scaturita a pagina dieci: in “Amico mio” di Gianmarco Perale chi è destinato a morire?
“Amico mio” di Gianmarco Perale, che spicca tra le ultime uscite della narrativa italiana e che è stato pubblicato da poco da NN Editore (una casa editrice molto attenta alle nuove voci, anche se Perale ha un trascorso con Rizzoli) con una meravigliosa copertina tratta da una foto di Mattia Grigolo, a sua volta scrittore (Pidgin e Terrarossa) è, senza ombra di dubbio uno dei romanzi di questa prima parte del 2023 che mi ha colpito di più.
Il romanzo racconta la storia di un rapporto di amicizia tra Tommaso detto Tom e Paride detto Poni. I due sono ragazzi tredicenni che vivono le proprie vite tra la scuola e il calcio, proprio come qualsiasi altro ragazzo della loro età. Quando il romanzo inizia scopriamo subito che c’è un antefatto già avvenuto, Tom, per difendere Poni, ha tirato un pugno a un altro compagno di nome Leo Fosco. Quel singolo evento di violenza contribuisce e far crollare l’equilibrio che già si reggeva faticosamente. Poni convince Tom a confessare il fatto alla madre e questa confessione innesta una spirale che poi ci accompagnerà fino alla fine.
Il rapporto tra Tom e Poni è retto quasi esclusivamente sull’ossessione che il primo nutre nei confronti del secondo. Tom vorrebbe un rapporto completamente esclusivo con il compagno, cova dentro sentimenti che nemmeno lui riesce a spiegare del tutto e, in questo panorama turbolento, le figure degli adulti stanno ai margini, relegate in un ruolo di comprimari, costrette a osservare lo spettacolo che si dipana davanti a loro, condannate a non capire fino in fondo il linguaggio dei rapporti tra i ragazzini tredicenni. Goffamente tendono la mano verso i figli, ma in cuor loro sono consapevoli di non avere la forza per afferrarli e tirarli a sé.
Il pugno a Leo Fosco, che da quel momento diventa un nemico a tutto tondo, secondo Tom ha una nobile giustificazione. Leo, poco prima del pugno, aveva utilizzato un righello per ferire Poni in testa. La semplice botta che ne consegue non giustifica assolutamente la reazione sproporzionata. Quasi come se Tom, in quel momento, nel tentativo di proteggere l’amico, anzi, nella missione di protezione di cui si è auto insignito, avesse perso totalmente il controllo delle proprie azioni.
Purtroppo per lui è proprio questo pugno a dare inizio all’allontanamento di Poni. Da questo punto in poi Tom mette sul piatto tutta una serie di strategie, a volte consapevoli a volte no, per riempire lo spazio tra i due. Porta a Poni la merenda quando in realtà non ce ne sarebbe bisogno, cerca di convincerlo del fatto che Leo Fosco non possa essere altro che un nemico per entrambi perché di lui non ci si può fidare, allunga una mano verso Poni per toglierli una piuma dalla giacca in un gesto che sembra contemporaneamente dolce e disperato.
Ma sono anche altre le strategie che Tom mette in funzione quando si rende conto che ogni suo gesto non ottiene i risultati sperati. Cerca di avvicinare a sé Poni con la pietà e la pena, gli racconta della leucemia che noi lettori, ormai in preda al dubbio, crediamo non sia mai esistita, lo riempie di menzogne per farlo vacillare proprio nel momento in cui anche Poni, quasi come se fosse diventato un po’ più adulto, inizia a osservarlo con occhi diversi, inizia a dare ai comportamenti di Tom il nome di ossessione.
“Cosa faranno a Leo Fosco?”.
Mia mamma si è tolta gli occhiali e si è strizzata gli occhi. Poi li ha rimessi.
Io ho detto: “Niente. Non faranno niente”.
“Tommaso?”.
“È vero. Quello che dico. È vero”.
“Ascoltami”.
“Ti sto ascoltando”.
“Hai distrutto il naso a un tuo compagno di classe”.
“Delle risate venivano dalle scale del palazzo.
“Non ho distrutto niente”.
“È il tuo punto di vista”.
“Non ho distrutto niente”.
“Tommaso”.
“Non ho distrutto niente”.
È anche in queste ripetizioni, ripetizioni che si susseguono per tutto il romanzo, che si fonda il ritmo crescente dell’ossessione di Tom. La sua è un’incapacità di mettere a fuoco i fatti, ma anche un’incapacità di dare una gerarchia agli eventi, non si rende conto che le proprie azioni non hanno un valore superiore, non sono fonte di giustizia. L’attacco a Leo Fosco è sproporzionato, ma ogni cosa è giustificata in nome dell’amico.
I dialoghi martellanti tra Tom e la madre o tra Tom e Poni sembrano non far procedere di un millimetro la presa di coscienza di Tom, sembrano non far progredire la narrazione trasformandosi in un nastro di Moebius che avvolgendosi su sé stesso di porta a rivivere lo stesso dialogo più e più volte. E invece sta qui la forza dirompete di “Amico mio”, in questa apparente fissità sta tutto il nucleo dell’ossessione, del rapporto malato che Tom ha con Poni. La stasi diventa un’immobilità di vedute, l’incapacità di Tom di curare sé stesso (ma chi è capace di farlo?).
Ma cosa prova il lettore? Cosa prova rendendosi conto che gli indizi che potrebbero portare alla tragedia sono lì davanti, facilmente individuabili? In realtà la nostra frustrazione è la stessa che può provare la mamma di Tom. Lei stessa si rende conto che qualcosa non va eppure non ha tutti gli elementi per delineare un quadro completo della situazione. Da una parte intuisce che Tom ha bisogno di aiuto, ma dall’altra non coglie la profondità dell’abisso e della disperazione, non coglie forse che la mancanza di una figura paterna può aver compromesso la stabilità emotiva del figlio che, a tutti i costi, cerca un rapporto con qualcuno che non lo abbandoni.
Torniamo alle domande iniziali. Per Gianmarco Perale i dialoghi sono stati amici o nemici? Direi senza ombra di dubbio che in “Amico mio” i dialoghi sono forse la parte più splendente del romanzo, hanno sostenuto l’arduo compito di far progredire la narrazione e di dare informazioni preziosi sulla psicologia del personaggio principale. Ho avuto l’impressione che se Perale avesse deciso di scrivere esclusivamente un lungo dialogo di duecento pagine il piacere della lettura non ne avrebbe risentito.
E poi la seconda domanda: chi è destinato a morire? A questa è meglio che risponda il lettore. Per quel che mi riguarda mi limito a segnalare che l’autore è riuscito a creare un meccanismo in cui l’angoscia e il senso ineluttabile di una fine sono cresciuti a dismisura fino alle battute finali.
Concludo con un ultimo particolare che ho apprezzato molto. Quando ci addentriamo in “Amico mio” non riusciamo a smettere di leggere, il ritmo creato da Perale è incalzante e ci obbliga a seguire le vicissitudini del protagonista principale arrivando al punto di indignarci con lui, di chiedere quasi a gran voce che qualcuno lo fermi, che qualsiasi sia il piano che gli frulla per la mente venga bloccato sul nascere. Questo accade pagina dopo pagina, monta in noi una certa rabbia perché ci sembra, forse, che il finale sia diventato ineluttabile. Eppure a pagina centosessantuno, poco dopo una svolta cruciale, Perale mette la foto di un ragazzino. Io non so chi sia quel ragazzino, viene da pensare che sia l’autore stesso, ma la cosa in realtà non ha importanza, quello che ha importanza è che in quel momento Perale sembra dirci che tutte le emozioni che abbiamo vissuto, la frustrazione, la rabbia, fino ad arrivare all’odio, sono state rivolte a un ragazzino di tredici anni.
E poi si chiude il sipario.
L’intervista
[Gianluigi Bodi]: L’uso dei dialoghi nel tuo romanzo è massiccio ed esemplare, aiutano a portare avanti la narrazione, non sono mai stucchevoli e mai artificiali. Mi chiedo se ti sei fatto ispirare da qualche autore o qualche autrice in particolare e se ci sono dei libri che hai “studiato” per arrivare a questo risultato.
[Gianmarco Perale]: I dialoghi sono il luogo (e il tempo) in cui vedo chiaramente i personaggi vivere. Schizofrenico, salto da un personaggio all’altro senza fissarmi nessun obiettivo. Succederà qualcosa, o forse no. So che il personaggio pilota vuole ottenere qualcosa ma non so se questa cosa la otterrà. Mi lascio stupire. Un dialogo può iniziare con un obiettivo e concludersi senza alcun risultato, e questo non mi preoccupa. Lascio andare i personaggi (e cioè io). Lascio che interagiscano, si conoscano, si odino, si amino. Che litighino o che si trovino d’accordo, per tutto il tempo che serve (e che io non controllo, non forzo, non stringo), non dimenticandomi mai di chi è il pilota, e cioè di chi guida la storia. Divento i personaggi e cerco di crearne e capirne i punti di vista (e cioè di capire i miei ipotetici punti di vista sul mondo). Agisco nell’interesse di ognuno di loro perché voglio che ognuno di loro dia il massimo per ottenere quello che vuole. Entro in un corpo, lo vivo, lo sperimento, e subito dopo salto in un altro corpo, e in un altro ancora. Li metto in difficoltà. Ognuno di loro (a differenza della vita vera) esiste per dire qualcosa (perché ho scelto io di farlo esistere) e nessuno di loro è di contorno, seppure i ruoli abbiano importanze diverse. Nessuno è discriminato, e in tutti esisto io. Esiste una parte di me che vuole vivere, essere vista, odiare, amare ed essere amata. Esistono molteplici me, che io riconosco nel momento in cui un personaggio prende una particolare posizione, e così imparo a conoscermi (e conoscere loro). Imparo ad accettare le parti di me che porto alla luce. Parti di me che non sapevo esistessero, che mi piacciono o mi spaventano. I dialoghi si muovono seguendo questi principi. Principi di scoperta e di accettazione. Di contraddizioni, senso di fallimento, rabbia, dolcezza, convinzioni assurde. Nei dialoghi so sempre dove voglio arrivare, e so che potrei non arrivarci. E questa progettualità fragile, porosa, fallimentare, è il modo che ho io di vivere la scrittura. Tra i miei riferimenti, su tutti Hemingway, Carver, Kristóf, Steinbeck.
Il tema dell’ossessione è molto forte e permea tutto il libro. Come hai fatto a rendere la cosa così vivida e reale? Che tipo di studio hai compiuto?
Per quanto mi riguarda, tutto è reale perché come in un atto di fede non smetto mai di credere a Tom (perché una parte di me è stata sicuramente Tom). Le sue ossessioni sono estreme, ma non così folli e incomprensibili. I suoi pensieri, le sue azioni e i suoi silenzi sono per me credibili (e da una parte di me addirittura condivise) perché lui si batte con tutte le sue forze per ottenere quello che vuole. E così gli credo, lo comprendo in ogni sua insicurezza, dubbio, fissazione (perché avrei voluto che qualcuno comprendesse me, probabilmente). E mentre ragiono, parlo dal suo punto di vista, parlo in realtà dal mio punto di vista, con la convinzione che avrei se mi trovassi al posto suo. E mentre scrivo sono dalla sua parte (fintantoché non esco da lui per entrare in un altro corpo). Non lo giudico mai (e quindi non giudico me). Non credo sia in torto (e quindi mi perdono a ogni frase). E nel momento in cui possiedo un altro personaggio, credo e mi fido di quel personaggio. Lo aiuto ad arrivare dove vuole. E se marcia contro Tom, mi fido di lui e lotto con a lui dal suo punto di vista. E così faccio per tutti.
Non so da dove nasca l’ossessione di Tom. Credo sia un miscuglio fra le mie paure e i miei desideri.
Fin da piccolo mi è mancata la capacità di riconoscere i limiti di ogni legame. Amavo qualcuno e ne ero ossessionato. Ero ossessionato da qualcuno e lo amavo disperatamente. Mi sono sempre mancati il metro e il termometro per misurare i miei slanci, le mie emozioni. Vivo la vita completamente immerso in quello che mi interessa, a occhi chiusi, concentrato su qualcosa (o qualcuno), e consacro me stesso in quella cosa fintantoché non mi accorgo che questo mio immergermi così in profondità mi sta trainando verso qualcosa di oscuro (proprio come è successo a Tom). A volte, quando penso alla mia vita di bambino e di adolescente (ma anche al me di oggi) penso subito ad amori, amicizie, interessi che mi hanno divorato (o che io ho divorato). Penso alla scrittura (diari, racconti, il creare Tom e le sue ossessioni). Penso a Tom, che ha di me più di quello che già riconosco. E penso alle mie ossessioni. Ritornano come fantasmi. E scrivendo di loro, di queste ossessioni, ho la sensazione di trovarmi nella stessa auto di sempre e di guidare come in ogni giorno della mia vita a fari spenti nell’oscurità, sopra una strada dritta e ben asfaltata, lunga centinaia di chilometri, in stile Kerouac. Guido a fari spenti su questa strada buia, misteriosa, senza lampioni. Guido e non voglio fermarmi, e ho paura di quello che c’è fuori. E a un certo punto, per non sentirmi solo accendo la luce dentro l’auto, come se servisse a qualcosa. Come se il vedere le solite parti del mio corpo possa rendermi meno solo. Fuori non vedo niente e fisso le tenebre che mi circondano. E quella luce sopra la mia testa, inutile ma così amica, illumina le mie mani sul volante, parte delle mie gambe. E i miei occhi che si guardano allo specchietto.
Qual è il significato delle foto che fanno da intermezzo tra le varie parti del libro? Che tipo di valore narrativo volevi che avessero?
Le foto sono innesti di finzione che precisano la finzione del romanzo. Dialogano con il testo, e rappresentano le verità di Tom. Dicono: “Gli Horcrux esistono perché Tom li ha creati.”. L’ultima foto rappresenta la liberazione di Tom ed è presente perché è il distacco di Tom. L’abbandonare (liberare?) la parte di anima che lui stesso aveva nascosto nella foto (foto in cui il suo amico lo sta guardando). Decide di regalargliela senza sapere cosa il suo amico ne farà, se gli arriverà ecc., e di dirgli quindi addio. La prima foto (la foto tessera di Leo Fosco), invece, credo non sia altro che un Horcrux creato da Tom involontariamente. Ogni Horcrux è qualcosa di oscuro, malvagio, terribile. Ma le intenzioni di Tom erano diverse. Se l’ultima foto, quella di Poni pirata, è un Horcrux creato nell’idea di amore, la prima foto è un Horcrux creato nell’odio. Ed ecco qui l’incapacità di Tom di riconoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Uno degli elementi che ho apprezzato di più è la capacità di analizzare sia i desideri dei tredicenni, sia quelli dei loro genitori. Tu sei nato verso la fine degli anni Ottanta per cui sei forse più vicino, in termini di affinità, alla generazione dei genitori. Mi piacerebbe però capire come sei riuscito a fotografare così bene l’inquietudine dei ragazzini, la loro voglia di appartenere a una comunità ma anche di essere unici, il loro voler essere indipendenti dai genitori, ma allo stesso tempo dipendenti dalle consuetudini tra pari età.
Sono solo un ragazzino tormentato.
“Amico mio” di Gianmarco Perale
ASIN: B0BN71CFSR
Editore: NN Editore (14 aprile 2023)
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 224 pagine
ISBN-13: 979-1280284839
Peso articolo: 250 g
Dimensioni: 14.2 x 1.6 x 22.2 cm
Gianmarco Perale vive fra Milano e Venezia. Ha frequentato la scuola di scrittura Belleville. Il suo romanzo d’esordio “Le cose di Benni” (Rizzoli 2021) è stato finalista al Premio POP, al Premio Severino Cesari e nella cinquina finale del Premio Flaiano under 35. Ha lavorato con Walter Siti al podcast “Perché Pasolini?” realizzato da Chora Media.
Immagine in evidenza: Foto di Nikolai Ulltang