In concomitanza con l’inaugurazione della mostra al Museo Luigi Bailo “Arturo Martini. I capolavori” (vernissage presso la Chiesa di Sant’Agnese, Borgo Cavour 35, Treviso) la Redazione del premiocomisso.it propone la lettura dell’articolo scritto da Giovanni Comisso per L’Eco del Piave del 7 luglio 1925.
È bene parlare ai trevigiani di un conterraneo riescito ormai a imporsi in modo eccellente nell’opinione dei critici è nella predilezione degli amatori e ricercatori di vere opere d’arte. Treviso, per ottima disposizione del Dio è una città d’una memoria un po’ selvatica. Grandi avvenimenti bellissimi o nefasti capitano sovente per le strade piane di questa città o entro alle case dalle pareti sottili, ma il fiume chiaro come gli occhi dell’infanzia lava ogni macchia e sospinge verso il vasto mare ogni ingombro gioioso e sublime. Una densa nebbia si distende per qualche tempo sulle fosse pantanose, le assorbe, le appiana, e poi quasi che nulla sia avvenuto, ecco splende un’aria limpida come se da tutto attorno alla città partisse il riverbero da un lago immenso.
Quando si arriva a Treviso di ritorno da un viaggio da qualche città frenetica, e s’incontra subito ai primi passi sui marciapiedi tolti al tumulto del diluvio, qualche signora rosea e odorosa di radice d’ireos con un’innocenza d’un secolo fa, si pensa: Ecco tutta Treviso personificata! Rosea e dolcemente obliosa essa è, formosa e quieta nella sua carne sinuosa alimentata dalla buona acqua e dal buon vino! Perché turbare tanta pace? Perché farle ricordare qualcosa? Ma non si rammenterà a questa signora odorosa d’ireos cose indiscrete. Si vuole ricordarle un nome che la farà sorridere di compiacenza e un’effusione di fresca gioia le illuminerà le pupille, come al riapparire d’un panorama terreno goduto in uno dei più felici momenti della vita.
Arturo Martini, quello spirito libero, che andava ad abitare su tutte l’antiche torri mozzate della città o nelle soffitte delle case più trivigiane che avessero un barbacane o un affresco, che teneva sulle spalle o un mantello parigino da sera o una pellegrina ariosa di sogni e di lirismo, che camminava sempre nel mezzo della strada col passo da figliol prodigo che parte, che nei caffè, nei loggioni, nelle osterie discuteva con tutti, in disaccordo con tutti, Arturo Martini da tutti giudicato pazzo, oggi ha raggiunto la soglia della gloria. Egli ne ride col sorriso amaro di Montaigne perché troppo conosce gli uomini. Ma quanto di tormento interiore e di battaglia fuori, non gli è costata questa sicura, certa alba di gloria.
Viene dal popolo trivigiano, popolo invero adorabile. Da quel popolo che freme e ferve nelle ore mattutine tra la piazza delle erbe nuova e quella vecchia, tra gli odori di vita, il mormorio delle chiacchiere, gli ironici richiami delle venditrici, il vibrare dei sorrisi, tra le anticaglie messe per terra, le cascate di frutta e di verdura, lo sbandieramento delle stoffe, e l’unto dorato delle fritture. Da questa fusione cordiale, sana, intelligente e amena è uscito il suo temperamento simpaticissimo. Giovialità, generosità, passionalità, eleganza e bellezza. Così nella piazza, per la strada, come il popolo. Ma nella sua casa: miseria a volontà strapotente d’uscirne. Ecco, come era la sua stanza. Un letto triste come vi fosse morto qualcuno, per terra grandi masse di creta, la voce di Zarathustra scritta sulla parete. Come egli amava questo desiderio di Zarathustra! “Ahimè, assai nobili uomini io conobbi, che perdettero le loro più sublimi speranze. E allora presero a calunniare tutte le sublimi speranze. Allora presero a vivere insolenti tra brevi orge e di rado seppero fissarsi una meta al di là della giornata…. Ma per il mio amore e per la mia speranza ti scongiuro: non far getto dell’eroe che è in te! Tieni sempre sacra la tua più sublime speranza!” Era il suo grido di battaglia in tutte le discussioni contro la gente che negava e sorrideva.
Sulle sedie, aperti come sulle g, libri di anarchici russi e di mistici del duecento. Poi le sue opere, o erette su dal ceppo come querce rinverdite, o frantumate a terra come macerie della guerra. Le sue opere erano effimere per sua stessa volontà. Vivevano al massimo un giorno o una notte. Poi con l’ansia e con la rabbia del creatore vero li demoliva egli stesso a colpi di mazza. Sempre scontento, sempre cercava di convincersi di verità nuove, di conoscere tutto sé stesso, di completarsi, di accrescersi, in una parola: di divenire. Gli artisti lo amavano e lo odiavano nel medesimo tempo: perché come egli era costruttore per se stesso, così era esaltatore e demolitore per gli altri e non tutti sapevano tollerare un simile esercizio per toccare la perfezione. Quelli che lo compresero gliene furono riconoscenti.
Orbene in questi giorni vediamo in molti giornali del Regno il nome di Arturo Martini ripetuto con lunghi commenti sulla sua arte. Ugo Ojetti sul Corriere della Sera parlando della Biennale di Roma riscontra con grande soddisfazione che il Martini si è fatto più umano.
Alla Biennale di Roma il Martini ha una sala completamente a sua disposizione, e sulle opere esposte Carlo Carrà il difficile critico dell’Ambrosiano, ne ha scritto con molto favore, come già si lesse su questo giornale.
L’ortodosso Piero Torriano dell’Illustrazione Italiana scrive questo: “Arturo Martini è d’un arcaismo tra gotico e decorativo talora come goffo e vuoto, ma pure ha spirito d’artista e un delicato sentimento. La fanciulla ebrea e la figlia del Pescatore hanno una freschezza verginale che piace.” Non è un pontefice della critica che sentenzia, tuttavia ciò vale come impressione.
Sulla Rivista del Popolo d’Italia, Margherita Sarfatti indaga acutamente il temperamento artistico di questo scultore che oggi rappresenta la migliore speranza della scultura italiana. Ma se ascolti quanto dice Ugo Ojetti nel suo libro “I nani tra le colonne”: “Lo scultore Arturo Martini, ha collocato nell’ingresso della mostra di Ca’ Pesaro una statua in gesso, la Monaca, dove le gravi masse dei vestiti e del manto sono distribuite con sapienza. Ma dalla scultura romanica che gli deve essere cara, egli può ancora molto imparare, ad esempio a modellare nettamente un volto così da rivelarne l’anima”. Questo giudizio è di alcuni anni fa, ed è da mettersi in relazione con quanto l’Ojetti scriveva il mese scorso sul Corriere con tono di soddisfazione per l’obiettivo raggiunto. Una mostra personale molto importante fu fatta dal Martini a Milano; all’apertura egli tenne una conferenza sulla scultura. Il successo fu confermato dalle vendite cospicue e dalla pubblicazione d’una monografia per iniziativa dell’incontentabile Carrà, il quale tuttavia in esso conclude: “Arturo Martini si prefigge, nel romitaggio di Vado Ligure, di lavorare tanto da diventare il primo scultore italiano ma per giungere a questo egli non ha molto da faticare. Gli basterà la disciplina che viene dalla serenità d’un vivere semplice e operoso”. Dopo questa mostra milanese Martini ascrive all’attivo della sua gloria altri due trionfi reali e uno virtuale.
Primo: vince il concorso nazionale per il monumento al Fante in Vado Ligure. Bistolfi lo ha abbracciato appena ha veduto questo monumento. E Baroni e Carena l’hanno ritenuto il più bello dei monumenti ai caduti. Pertanto Ojetti così ha scritto all’autore: “Caro Signore, Il suo monumento di Vado Ligure mi piace moltissimo per chiarezza, solennità, semplicità ed equilibrio. Se ha le fotografie delle quattro statue me le mandi e le pubblicherò sul Dedalo con un commento. Cordialmente. Ojetti.” Il secondo trionfo fu alla mostra delle arti decorative a Firenze dove con la famosa Pulzella d’Orleans riesce a sorpassare la rinomanza di tutti e chi ha letto le cronache di quei giorni, ricorda cosa scrisse su di lui Sem Benelli. Il trionfo virtuale riscosse qui a Treviso nel concorso per il monumento al generale Tommaso Salsa. Su circa duecento concorrenti da ogni parte d’Italia, la commissione composta dagli scultori Bistolfi, Girelli e Buzzoni ha giudicato tra i quattro degni di considerazione, il Martini con questo giudizio: “ Più originale ancora e più imprevisto è il bozzetto N. 53 di Martini Arturo, composto di elementi inconsueti e che, possono per un momento apparire inadatti ad un monumento da collocarsi in una piazza, esprimono invece in una forma semplice e chiara una vastità d’ambiente creata alla figura, assai appropriata ad evocare convenientemente i luoghi dove il Generale ha vissuto e combattuto. la figura, sommaria e indefinita fino all’esasperazione, ha tuttavia una vitalità interiore che, considerata nella sua impressionante efficacia attrae e convince.”
Poi il monumento al grande Condottiero Trivigiano conquistatore alla Patria di terre e di vie marine, passò nel solito oblio locale e più non se ne parlò quasi fosse argomento proibito. E al Martini non rimase che la soddisfazione di questo verdetto. Ma facciasi, o Trivigiani! attenzione a quanto segue e poi dicasi se non bisogna leggermente arrossire e ricredersi, con promessa verso il futuro di essere più generosi e più cordiali. Qualche tempo fa certi critici di scultura vennero a Treviso per fotografare alcune opere dello scultore Borro per compilare uno studio su di esso. Il Borro è quel tale valente scultore che fece quella tale statua dell’Indipendenza ed altre opre non malvagie, indorate del più inzuccherato accademismo. Orbene vennero questi intenditori, e per errore fotografarono assieme alle opere del Borro esistenti in Treviso, altre del Martini che erano vicine credendole del Borro.
E questi intenditori già vantavano nel Borro qualità ignorate e spiriti moderni, quasi antiveduti nelle tenebre del suo secolo, ma l’errore venne svelato a Venezia dove lo stile di Martini è ben noto e a Martini fu ridato accresciuto quello che era suo. Accresciuto, perché quelle opere prese per errore erano proprio quelle opere che quando il Martini viveva a Treviso, gli facevano guadagnare tanta riputazione di pazzo, di futurista ignobile, di esaltato intollerabile. Se si pesa sottilmente questo piacevole fatto credo che ci sia per il Martini da goderne come d’una vittoria in rivincita. Ma altro egli merita e altro gli è dovuto. Noi gli auguriamo di poter giungere come Benvenuto Cellini, a baciare lagrimando di allegrezza la vesta a un Principe che gli dica: come per il Perseo: “Tu hai soddisfatto e contento me e tutto il popolo”. E troppo egli ama le stelle perché esse non abbiano a essergli benigne.
Giovanni Comisso
da L’Eco del Piave del 07/07/1925