"Ci darà un nome il tempo": una storia di ricomposizione. Intervista a Saveria Chemotti

“Ci darà un nome il tempo”: una storia di ricomposizione. Intervista a Saveria Chemotti

Suona come una promessa il titolo dell’ultimo libro di Saveria Chemotti, Ci darà un nome il tempo (Iacobelli, 2022), dove il ricorso all’indicativo futuro racchiude un senso di speranza, di fiducia, come se le cose potessero “sistemarsi” da sé, rompendo gli obblighi della perimetrazione, della chiarezza imposta dai criteri ordinativi. Non che l’opera sfugga alla tassonomia dei generi, trattandosi di un romanzo che, in tempi di tentazioni autofinzionali, trova nell’intreccio fra racconto di formazione e riflessione storico-morale una specificità che sembrava perduta.

Al contrario, ciò che nel testo di Chemotti rivela un’attrazione per il disorganico è la scelta di un tema – l’amicizia fra due donne – talmente (ri)declinato da poter essere sovvertito solo a partire da percorsi già battuti, da uno squilibrio insito nei rapporti affettivi che diviene motore di cambiamento, osservatorio privilegiato sulle scelte in-compiute, sui tentativi messi in atto per ripensarsi e sopravvivere.

Claudia, docente inflessibile con un passato di lacerazioni, trova nello scambio epistolare con una sua allieva uno spazio di definizione del sé, come se gli occhi dell’altra fossero uno specchio in cui osservare le proprie mancanze, i limiti autoimposti. D’altro canto Marta, l’alunna ribelle fattasi suora, è uno spirito indomabile, una di quelle anime che hanno bisogno di perdersi per trovarsi, capaci di illuminare gli altri per mostrare loro l’invisibile, di svelare – tramite il proprio sguardo – ciò che la mente rimuove o confonde.

È una storia di ricomposizione quella delle due donne, ma è ancor più un viaggio al termine del «pozzo» in cui affogano, a volte, tutti gli sforzi del femminile, quelle sicurezze azzoppate che Natalia Ginzburg descrive nello scambio con Alba de Céspedes evocato da Marta in una lettera alla docente. Proprio dal fondo delle paure nasce questa narrazione, da una ritrosia emotiva e razionale che necessita del distacco per sciogliersi e osservare meglio quanto si è lasciato indietro. Ed è nella distanza che si sviluppa un’amicizia fatta di email e telefonate rubate al ritmo del convento, un appuntamento atteso, mancato, sempre agognato come spazio di sfogo, di liberazione del dolore.

Abbandonarsi per abbandonare anche le convenzioni che ingabbiano, i contesti – familiari, culturali, sociali – che costringono a definirsi a partire dalle norme, in una linearità accomodante, spesso prossima alla rassegnazione. Le due protagoniste, ciascuna a modo proprio, scappano da una condizione che le mortifica, e solo nel salto mortale oltre il pozzo trovano la mano dell’altra, un senso di libertà che è insieme politica e personale, giacché ogni slancio, ogni titubanza sottende un destino ereditato, una lunga storia di modelli introiettati.

Tutto si tiene in quest’opera lieve eppure complessa, fatta di fili che si spezzano per rintrecciarsi, di immagini che crescono le une sulle altre sovrapponendo realtà e immaginazione creativa, laddove il vissuto dell’autrice si fonde, almeno in parte, col pentagramma sentimentale di Claudia, la cui vicenda è narrata tramite partizioni corrispondenti a un tempo dell’anima in perenne assestamento, in bilico fra ricordi e tentativi di sopravvivenza. Il corpo a corpo con i fantasmi del passato, con i riti di un nuovo innamoramento vissuto secondo i canoni di Cappellano, come malattia che intacca le viscere e si compone di attese, delusioni, dolori fisici, diviene per Claudia porta d’accesso a esperienze altre, più vere e intime, parte di una stagione che credeva perduta.

Non c’è dettaglio, nel romanzo di Chemotti, che non sappia di tenerezza, di fragilità combattute e infine elette a veri punti forza, laddove ogni gesto è osservato, posto alla giusta distanza tramite l’uso della terza persona, quasi agisse un occhio fotografico in grado di fissare la comprensione di sé. Con un gusto quasi ottocentesco per il dettaglio, l’autrice disseziona chiunque attraversi il suo campo visivo, inclusi i personaggi che fanno, di Marta e Claudia, le donne che sono diventate: dai genitori della giovane, antica “stirpe” contadina, al marito della docente che, come ogni grande amore, rimane un ricordo felice e sovrastante.

E poi il paesaggio, tanto dettagliato da sembrare vivo, emblema di quel senso del luogo che rende l’ambientazione un impasto di sentimenti, dubbi, spiritualità. Così, il Trentino di Marta risponde al nome religioso che si è scelta, suor Serena, imperturbabile e fuori dal tempo, come il convento umbro dove il concetto di clausura acquista un nuovo significato: far pace con la solitudine per apprezzarsi e donarsi. E ancora il delta del Po, dove Claudia consuma la sua esistenza, fa pace con i suoi tormenti cambiando lentamente pelle, scavando nell’anima a partire dai sensi, da quel corpo che avvertiva quasi estraneo, incapace di ascoltarsi.

Forse è proprio la corporalità la cifra di questo romanzo che alterna sequenze descrittive a dialoghi secchi, affilati, in cui si sente l’eco dell’esperienza di saggista sebbene l’autrice coniughi algebra e fuoco, ricerca letteraria e passione per la vita, per le esistenze in movimento. Così il suo occhio, che pur si sofferma a lungo su cose e persone, è essenzialmente puro, libero dai giudizi, dai dettami del potere. Uno sguardo disteso e limpido: lo stesso, poi, dell’intera letteratura.
Ginevra Amadio

L’intervista

[Ginevra Amadio]: Speranza, paura, riappropriazione di sé. Ci darà un nome il tempo si configura come un’orografia dei sentimenti, un viaggio al termine del silenzio, di quel grumo che un giorno si scioglie e dà un senso alle parole, un ordine ai fatti. Quanto c’è di te in questa storia?

Saveria Chemotti
Saveria Chemotti

[Saveria Chemotti]: Come in altri miei romanzi anche in questo si rispecchia un percorso identitario che è frutto di ripensamenti e di rievocazioni del passato per dare un senso al presente. In particolare qui mi soffermo sull’importanza del confronto con la fede, il patriarcato cattolico e una sua possibile revisione dall’interno dei credenti e, soprattutto, sull’importanza dell’amicizia tra donne che è uno dei leitmotiv della mia ricerca anche saggistica.

La terza persona, come un occhio fotografico, fissa un rapporto che adombra quello tra madre e figlia, denso di esitazioni, timori. Si ha l’impressione di prepararsi a un incontro che ingloba tutte le sfumature.

Il tema del rapporto madre-figlia è fondante nella storia della letteratura delle donne, come scrive in modo suggestivo H. Cixous «La donna non è mai lontana dalla madre. […] Sempre in lei sussiste un po’ del latte materno. La donna scrive con l’inchiostro bianco.» A partire dal mio primo romanzo questa tema impregna la mia scrittura e nasce certamente dalle mie complesse esperienze di figlia.

Il romanzo è un flusso di ricordi, umori, pulsioni. Le evocazioni sensoriali passano attraverso la vista e l’olfatto, dalla nebbia padovana all’odore di salsedine. C’è un’immagine nella tua memoria che ti ricollega a Claudia e Marta o, più genericamente, a quello che hai raccontato?

Ovviamente molte sono le immagini che mi riconducono al percorso del romanzo. Con Marta, il mio Trentino, la mia terra d’origine e i suoi abitanti; i piccoli paesi delle valli montane, la natura che dialoga coi sentimenti e i desideri in un rapporto stretto e coinvolgente. Claudia evoca alcune situazioni del mio impegno di docente all’Università di Padova e una certa conflittualità nativa con il genere maschile.

Ho l’impressione che le tue personagge rechino in sé un marchio ancestrale, che ne indica il carattere e le attitudini, come a suggerire che l’esistenza passa anche attraverso il ricordo, la celebrazione del nome. Quale criterio hai adottato?

Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania nel Vangelo di Giovanni dove viene presentata come una donna di indaffarata e disattenta tanto da ricevere il richiamo di Gesù che, ricevuto in casa come ospite, biasima l’eccesso di affanno per le cose materiali a scapito della vita interiore. Claudia, di origine latina, significa colei che zoppica ossia è persona ‘claudicante’ o zoppa. Qui, simbolicamente.

Ci darà un nome il tempo può essere letto come un atto d’amore per il genere romanzo, che con la sua organicità sa ancora rivelare, indagare l’animo umano…

Spero di esserci riuscita. Scrivere significa rivelare, comunicare. Un atto di accoglienza per se e per il lettori.

Saveria Chemotti - Ci darà un nome il tempo

“Ci darà un nome il tempo” di Saveria Chemotti
Iacobelli Editore (8 luglio 2022)
200 pagine; 290 g; 886252708X
Immagine di copertina: di Miguel À. Padriñán (part.)

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