Il Diario di Giovanni Comisso: Gli equivoci della "Civiltà delle macchine"

Il Diario di Giovanni Comisso: Gli equivoci della “Civiltà delle macchine”

Non è da disperarsi se fino a Roma si ha troppa smania di lavorare e dopo invece è tutto l’opposto. Fino a Roma siamo ancora in una Gallia transalpina, transpadana e transappennina, mentre dopo siamo nella vera Italia, quella che fu nei sogni degli Arcadi e di tutti i poeti del mondo. Ma questo non va più coi tempi moderni, la parola d’ordine è: «Bisogna industrializzare il Mezzogiorno». Ricordo i tempi in cui fino a Salerno si poteva vedere ancora un comignolo d’una fabbrica di conserva di pomidoro e poi niente più. Adesso a Bagnoli, a Pozzuoli, a Castellammare di Stabia, a Crotone, a Catania, a Siracusa, a Palermo crescono le fabbriche come i funghi dopo la prima pioggia d’autunno.

Il petrolchimico di Siracusa (foto di Davide Mauro, Wikimedia Commons)

Questo piano di industrializzazione dovrebbe tramutare tutti gli Italiani in una sola falange di lavoratori e di industrializzatori, ma vi è un atroce destino a impedirlo. Tutte le nuove industrie del Mezzogiorno non sono certamente fatte né coi denari risparmiati dallo Stato, né con quelli degli industriali del Settentrione, ma con quelli che tutti i cittadini dal Settentrione fino a Roma, pagano regolarmente con le tasse, giacché quelle pagate nel Mezzogiorno non bastano per sostenere le minime spese locali. Per creare, sostenere e accrescere l’industria nel Mezzogiorno, le tasse, nel Settentrione, sono giunte a tale punto di accerchiamento e di schiacciamento di ogni iniziativa di lavoro e di industria da indurre a rimanere a grattarsi la pancia. Così entro a cinquant’anni avremo in Italia una situazione del tutto capovolta: mentre il Mezzogiorno sarà operosissimo, il Settentrione sarà ozioso, e questa si chiama: civiltà delle macchine.

Una vecchia foto dell’area dell’Italsider di Bagnoli ancora in funzione (foto di Pino alpino, Wikimedia Commons)

Civiltà delle macchine” è nello stesso tempo il titolo di una grande rivista edita a cura anche di molte imprese industriali del Mezzogiorno. Luigi Einaudi che è un attento lettore e misuratissimo critico, dopo avere apprezzato a denti stretti questa rivista, dice: «Di solito guardo con grandissimo sospetto alle riviste di questo tipo su carta patinata, con illustrazioni e con molta pubblicità; il sospetto essendo legittimato dalla constatazione che per lo più il testo, nonostante talvolta porti le cosiddette grandi firme, non dice mai niente». Ed è appunto il caso di questa rivista, aggravato dalla presenza costante di illustratori astrattisti e confusionari a tale punto che il lettore, che si presume abbia da essere un uomo positivo, giacché si accosta alla civiltà delle macchine, possa pensare a uno scherzo. Vi è un articolo su di un altoforno illustrato dal pittore Carmi, dove ogni tavola, fatta di macchie arbitrarie di colori, porta sottotitoli simili: «Interno verso la uscita dell’acciaieria dello stabilimento, nastro trasportatore accanto alla cokeria. Gli altiforni da lontano. Particolare di un altoforno. Particolare del laminatoio a caldo». Tutti questi sottotitoli potrebbero venire spostati da una tavola all’altra senza «creare una confusione maggiore». Da questa rivista, pubblicata a cura di un grande gruppo industriale e che dovrebbe avere una linea seria e positiva, se l’industria è tale, viene affermato in un altro articolo: «Il futuro di quanto proviene e nasce dal disegno è legato alle incredibili e stupefacenti scoperte che i pittori e scultori vanno facendo liberamente, seguendo la loro fantasia». E si portano come esempi le macchie dei soliti nostalgici futuristi. Se a questi disegnatori è legato il futuro degli arsenali e delle fabbriche, che finanziano questa rivista, vi è da dubitare sulla consistenza delle navi e delle macchine prodotte.

Giulio Carlo Argan negli anni 60

Nel leggere un altro articolo di Giulio C. Argan, ci si convince che non c’è da temere per l’arte, ma per le macchine, giacché egli si serve di un oscuro linguaggio fatto di termini a esse relativi, come fossimo non davanti a un quadro, ma in un laboratorio chimico. «E’ facile constatare che questa intensificazione emotiva (si tratta della pittura di Corpora) dipende appunto dal distaccarsi dell’emozione dall’oggetto cui era inizialmente legata, dal suo porsi come nota autonoma il cui timbro può ripercuotersi, determinare altre scariche emotive, organizzare distanze e relazioni». La fortuna di questa rivista è d’essere pochissimo diffusa e di vivere, come diceva Einaudi, di molta pubblicità, fatta appunto da quelle industrie che esistono solo per l’aiuto dato dalle tasse pagate dai settentrionali.
Giovanni Comisso

da Il Giorno del 27/03/1957
Immagine in evidenza: frame da Charlie Chaplin – Tempi moderni (1936)

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