Due signore straniere, allungate sulle sedie, si prendevano il primo sole caldo, come fosse una doccia di polvere d’oro, e mi sorridevano mentre camminavo in attesa venisse aperto il Vittoriale. Mi sorridevano ogni volta passavo davanti a loro e chiedevo scusa se con la mia ombra le escludevo per un attimo dal sole. Infine insegnai a loro non bisognava pigliarlo sulla testa, ma sul volto e seppi che venivano da Copenaghen. Sembravano anitre selvatiche stanche in sosta durante l’emigrazione. La più anziana mi disse che D’Annunzio aveva rubato a sua zia quella casa che era stata tramutata nel Vittoriale. Mi feci ripetere meglio: sua zia era la moglie del critico d’arte tedesco Enrico Thode a cui apparteneva quella villa, e allora spiegai che D’Annunzio non l’aveva rubata, egli l’aveva prima presa in affitto e poi comperata per poche lire simboliche dal Governo Italiano, che l’aveva requisita durante la prima guerra come bene nemico. Siamo sempre nell’orbita fatale che ha sempre circondato D’Annunzio: ai tanti successi, alle tante devozioni ed entusiasmi per lui hanno sempre corrisposto altrettante diffamazioni, esagerazioni e menzogne.
La colpa era un poco anche di lui che si divertiva in tanti modi di offrire l’occasione di alterare per primo la sua stessa realtà, le sue vicende e tutte le cose che l’accerchiavano, come questa casa, l’ultima da lui abitata, dopo l’impresa di Fiume. In una lettera che mi scrisse tanti anni addietro, mi avvertiva: «Questa non è una casa, ma uno sforzo di espressione», e non avendo mai avuto modo di visitarla, immaginavo che almeno nella sua intimità e per uso esclusivo di se stesso si fosse spogliato di tante superstrutture e fantasticherie di cui si serviva di solito per incantare la gente. Invece mi ero ingannato.
Ho potuto, ora, visitare la sua casa riservata, quella che solo pochissimi possono visitare e mentre mi avviavo verso l’ingresso non riescivo sentire la voce di chi mi accompagnava, tanto era il fracasso delle campane dalla chiesa vicina. Se avveniva una pausa subito dopo riprendevano con maggiore slancio. Non potevo immaginare come D’Annunzio le avesse sopportate per tanti anni, egli che amava il silenzio e tutti i mezzi toni. Io avrei piantato in asso il Vittoriale e tutte le sacre memorie e me ne sarei andato altrove, ed egli invece si limitava a scrivere tremende e vane diffide al parroco minacciando di fare tagliare non le corde, ma le mani del campanaro.
Già al di fuori della casa ho capito che sebbene egli abbia fatto scolpire il motto: «Io ho quello che ho donato», era invece una vittima dei doni ricevuti e lo continua ad essere ancora dopo morto. Non solo la semplice facciata della casa è stata letteralmente coperta da stemmi e da cimeli donati da città, da associazioni e da amici, ma persino la sua tomba ha doni d’anfore con la terra dei cimiteri di Fiume e di Pescara e con l’acqua del Piave. Doni questi assurdi per un uomo che con tanta spiritualità non aveva bisogno della misera documentazione della materia.
Subito appena entrato nella casa mi sono maggiormente convinto che egli era non solo una vittima di tutti i suoi fanatici, ma soprattutto degli antiquari. Egli che risultava un creatore, un ideatore, un condottiero teneva in fondo un senso segreto di compiacersi alla rinuncia della volontà. Lo sapevo, perchè Guido Keller, il suo segretario d’azione, mi aveva detto che più d’una volta gli aveva fatto l’elogio di questo metodo : «L’arte di comandare è di non comandare». Qui si vede palesemente che egli non aveva un minimo di volontà per rifiutare un dono o nasconderlo nella cantina o rivenderlo come ferrovecchio, nè di rifiutare una qualsiasi offerta d’acquisto fattagli da un antiquario.
Viene da pensare che quando gli portavano qualcuna di questa miriade di trappole, che ricoprono tutti gli spazi interni, egli, come un bambino e il povero Maroni, che ne subiva senza scampo il fascino, si divertissero per una giornata intera a trovare il posto dove collocarla o sovrapporla o innestarla o coniugarla con altre trappole già accumulate. Se avessi visitato questa casa mentre era ancora vivo gli avrei assolutamente chiesto come mai egli che nella nostra giovinezza è riescito ad apparirci soprattutto come simbolo di un paganesimo selvaggio dominato dai sensi, prediligesse tanti armamentari religiosi.
Dal pastorale dorato della scaletta d’ingresso, per tutte le stanze, è un susseguirsi di incensieri, di acquasantiere, di reliquari, di ostensori, di tabernacoli, di aItari, di statue di santi in legno policromo, di crocefissi e di Madonne. Forse mi avrebbe risposto con lo spirito del suo amico Robert de Montesquiou (lo Charlus di Proust) : «Io sono l’impero della decadenza e questi sono i trofei delle mie vittorie». Certo questi trofei testimoniano tristemente, che sono state saccheggiate centinaia di quelle nostre antiche chiese, che oggi vediamo tanto squallide.
Vi sono particolari che non hanno un minimo di buon gusto e che non contengono la minima ironia, il minimo scherzo e che sono solo testimonianza di una grande noia da rimbambire. Non so chi gli regalò una riproduzione di una galera veneziana, brutta, sebbene del 700, egli ha avuto il coraggio di farla sospendere al soffitto, mettervi una luce dentro e posarvi sulla tolda un lucertolone imbalsamato altro dono di altro ignoto. Nella sua stanza da letto vi sono due calchi di due teste di donna (forse scolpite da Fidia), l’una l’ha coperta con un elmetto derviscio con maglia di ferro e sopra l’elmo vi ha fatto una polpetta con un rosario che forse viene dal Monte Athos. Entrambe le teste hanno le labbra truccate col rossetto. Così il calco in gesso dell’Apollo di Fidia ha la chioma e il pube indorati di porporina, e un povero schiavo di Michelangiolo è coperto da una sottana femminile di damasco. Le sole statue vere sono dei suoi amici Brozzi o Minerbi, le altre, quelle di Fidia, di Prassitele e di Michelangelo sono naturalmente tutte riproduzioni in gesso, che tra tante preziose opere autentiche danno con la delusione, un terribile fastidio. Mi sembra di vedere i miei amici aviatori Bacula o Keller, che erano anche suoi amici, quando nel venire a salutarlo gli portavano un modellino di un nuovo tipo di aereo o di elica, orbene, quei modellini dopo averli osservati, palpati, commentati, non ha avuto la forza di liberarsene facendoli mettere in soffitta, ma invece di concerto col paziente Maroni ha trovato un posto storico dove collocarli.
Tutta la visita per le varie stanze e cubicoli si è svolta a una luce fioca di lampade velate, che dà proprio l’idea di aggirarsi in un sepolcro. Egli non voleva che mai la luce del sole venisse a illuminare dalle finestre, una sola volta che una finestra è stata aperta, ma era di notte, egli cadde di fuori spaccandosi la testa. Le stanze non sono ampie, sono piuttosto basse e piccole, rese ancora più piccole dagli ingombri innumerevoli delle cose d’antiquario, di cimeli e di calchi. Un uomo di studio come lui avrebbe dovuto avere almeno una grande stanza esclusivamente adibita a biblioteca, invece quasi tutte le stanze, i corridoi e persino la sala da pranzo hanno librerie fitte alle pareti. Si può immaginare la polvere che vi si accumula, e anche queste librerie rimpiccioliscono gli ambienti. Ogni divano o poltrona ha per lo meno una trentina di cuscini. Si pensa come dovevano muoversi in simili stanze uomini un poco grandi come Cicerin, come il Principe Umberto, Balbo, Mussolini e i suoi capi legionari che erano tutti irrequieti e corporati. Si pensa anzi avesse creato quest’atmosfera da bazar orientale appunto per impacciare i visitatori che era obbligato ricevere, sebbene ne avesse disprezzo.
Più di una volta mi è avvenuto di pestare qualcosa o di inciampare in qualcosa che doveva essere di altissimo valore. Ma nella stanza delle reliquie mi sono accorto che dopo avere ordito contro al soffitto un intreccio di corda da marinaio, una specie di tela di ragno, vi ha impigliato di sopra una lunga pelle di serpente, e allora mi sono convinto che l’ingombro non poteva avere lo scopo di impacciare i piedi dei visitatori antipatici.
Uscendo dal Vittoriale mi sono incontrato con un signore del luogo che già mi aveva parlato altre volte. Non so se per la vicinanza con la casa di D’Annunzio o perché fa parte dei virgulti di quel famoso ceppo dei misteri italiani, mi parlò di avere fondato un ordine, un movimento per l’unione di tutti gli Stati del mondo con una lingua unica, sotto la stessa bandiera formata dalla fusione di tutte le bandiere, con un inno unico e con uno stemma comune formato dal libro sormontato dalla ruota e la ruota sormontata dalle spighe. Anzi questo stemma e questa bandiera li aveva fatti riprodurre su due portaceneri che veniva gentilmente ad offrirmi in dono assieme alla proposta di assumere la presidenza del movimento. Sono stato costretto a rifiutare tale carica, ma i due portaceneri li ho accettati in dono, anch’io come li avrebbe accettati D’Annunzio e come lui, ritornato nella mia casa, non li ho regalati via, ma li ho appesi a una parete, cercando, come avrebbe fatto D’Annunzio, che avessero una rispondenza con altri oggetti della stanza, ma invano, perché non sono assediato da antiquari o da fanatici devoti.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul quotidiano Il Giorno del 31 luglio 1957