Avvengono strani fatti nella vita, specie se misurata a lungo nel tempo. A Pompei, quando oziosamente veniva scribacchiato sulle pareti delle case ha finito per diventare testo di storia e rivelazione profonda della vita di quegli uomini vissuti tra la fine dell’era pagana e il sorgere di quella cristiana.
La mia esperienza diretta mi ha dato di scoprire lettere da me scritte ai familiari, durante tutta la prima guerra mondiale, durante l’impresa di Fiume e nei miei viaggi per il mondo. Come sia sopravvissuta questa corrispondenza durante un periodo di due guerre, con due bombardamenti della mia città e due fughe, dopo la morte dei familiari e la distruzione della casa è inspiegabile. È proprio come per Pompei, dove dopo una distruzione e una livellazione vulcanica quelle testimonianze fermate sulle pareti non sono state destinate alla cancellazione ma a una conservazione duratura.
In uno stipo ho scoperto, scrupolosamente conservate, tutte le mie lettere scritte alla famiglia dal 1915 al 1945, cioè per tutti i periodi che mi ero allontanato da casa per fare il soldato o per andare per il mondo. Trenta e più anni della vita di un uomo in un’epoca fra le più travolgenti. Vi è quasi una lettera al giorno, una vera fitta pioggia di lettere che finirebbe per annoiare se ogni tanto una breve battuta non venisse a dare l’avvertimento di un fatto che è stato come un giro di chiave della storia.
La battaglia del Montello con la cacciata degli austriaci aldilà del Piave è annunciata così: «Ho vissuto momenti memorabili».
Durante quella per la presa di Gorizia venne fatta avanzare la cavalleria credendo si potesse arrivare in un balzo a Trieste, un soldato che era stato un mio compagno di scuola, ebbe l’ordine da suo padre, che era un colonnello, di andare con il suo squadrone in esplorazione e venne ucciso. Lo riferisco così: «Sembra un fatto della storia romana». E ancora scrivo sull’esito della battaglia che in quei giorni sembrava risolutiva: «Qui le operazioni sono andate bene. Ho visto feriti che venivano caricati in un treno ospedale e cantavano per entusiasmo». Scrivevo, ma non avevo ancora esperienza della vita, cantavano, perché sapevano che non erano morti e sarebbero ritornati borghesi.
Un’altra volta annuncio come eccezionale un fatto semplicissimo, quasi fossi stato coinvolto in una battaglia. Ero andato a fare il bagno in un torrente vicino al posto dove prestavo servizio, quando alcuni cavalli portati ad abbeverare, calpestarono il mio vestito schiacciando l’orologio. Racconto la mia rabbia di non avere potuto impormi a quei soldati, perché non avevo addosso i gradi di caporale.
In una lettera dei primi mesi di guerra scrivo a casa perché mi si mandi il libro di Machiavelli L’arte della guerra e sembra che mi fosse necessario nella circostanza di trovarmi al fronte come una guida turistica in attesa di fare un viaggio. È strano, ma in quegli anni non prevedevo che sarei diventato uno scrittore di racconti e qualche tempo dopo, diventato ufficiale, avvertivo di avere scritto, non i primi capitoli di Giorni di guerra, ma un libro di organizzazione militare frutto delle mie esperienze, e che lo avrei mandato al ministero della guerra. Credevo necessario fare delle innovazioni nella sistemazione dei comandi schierati di fronte al nemico. Quando ero sul Grappa invece volevo che mi spedissero un libro lasciato nella mia stanza, Il poeta assassinato, di Apollinaire e soggiungevo che quel poeta ero io.
In grande parte della corrispondenza sempre dichiaro di stare molto bene e di divertirmi, certamente per dare tranquillità ai genitori. Sempre ho la speranza che tutto vada a finire per il meglio, anche se il Veneto era invaso, la guerra continuava, i familiari fuggiaschi, la casa minacciata e la mia vita incerta. Le ingenuità sono molte, come quella di scrivere di essere entrato nella nostra casa abbandonata e con l’aiuto dell’attendente di avere spazzato tutti i vetri rotti e di avere sbattuto la polvere dai divani. Un’ incoscienza grandissima, dopo doveva avvenire un’altra guerra che avrebbe raso al suolo quella casa. Si vive sempre cosi: i giovani non sanno quello che sta loro attorno, perché accecati dai vent’anni e gli anziani vivono in continuo allarme vicini ai tramonto. La vita va avanti lo stesso perdendo il suo pulviscolo d’oro come quello delle ali delle farfalle che vengono prese con le dita.
Quante morti nel passare del tempo, non solo per la guerra, ma per lo scorrere della vita: innumerevoli nomi di amici, di parenti, di conoscenti non sono più di questo mondo. Una selva di cadaveri. Un ritornello quasi a ogni lettera è l’accenno all’influenza di una persona amica che si trova al comando supremo per ottenere una destinazione o un’altra. Nella vita vi è sempre un comando supremo e sempre si cerca una scorciatoia che muti il destino.
Le lettere dopo la guerra non sono diverse da quelle di quel periodo. Sempre sono in attesa di una fine e di un principio, di una sistemazione sicura. Sempre parlo di avere conosciuto persone importanti e mecenati decisivi, che non lo sono stati per niente. E sempre quello che è stato invero importante e decisivo, viene accennato senza che mi accorga che lo era. Continuerò la lettura di queste lettere, che mi sarà molto istruttiva perché nella vita vi è sempre una guerra e si finisce per essere sempre dominati dall’incoscienza dei vent’anni, anche se non si hanno più.
Giovanni Comisso
da La Nazione del 18/04/1966