Lo scultore Arturo Martini parlava con il tono e con lo spirito di Benvenuto Cellini. Quando i profughi fiorentini andarono a Roma da Benvenuto e lo rimproverarono di avere fatto le medaglie celebrative per il tiranno mediceo, aveva a loro risposto: “Io sono un povero orafo e faccio i lavori per chi mi comanda”.
In una situazione analoga, quando Martini venne accusato di avere con le sue statue parteggiato per i fascisti, aveva risposto: “Giolitti non mi avrebbe mai ordinato una statua; Mussolini sì”. D’altra parte quando questi gli diede l’incarico di fare quella per i caduti napoletani, avendovi lo scultore messo in scena il sangue di San Gennaro, finì per leticare con il dittatore e non la fece.
Sono cose che capitano agli artisti nel servire chi comanda e a Martini era toccato anche peggio. Da poco finita la grande guerra, Torino aveva avuto l’idea di rovinare una delle sue più belle piazze per sbarrarla con un monumento al duca d’Aosta. Martini aveva preparato un bozzetto assai importante, come risulta da particolari eseguiti, ma si trovò pubblicamente escluso dal concorrere, perché si era scoperto che per un ritardo nel ritorno da una licenza militare era stato dichiarato disertore.
L’avevo conosciuto quando ero ancora un ragazzo, a Treviso, comune città natale, e figlio di una famiglia borghese mi era conturbante andare con uno che camminava per dispregio in mezzo alla strada, che vestiva secondo una moda inventata da lui, che mangiava nelle ore non stabilite, che frequentava le osterie e parlava con i camerieri e con gli ubriachi. Martini mi tolse i timidi riguardi da figlio di buona famiglia che poi dovevo perdere del tutto con la guerra e con l’impresa di Fiume.
Egli appartiene alla storia artistica d’Italia, perché per primo con validità di opere si oppose all’accademismo e alla linea della scultura celebrata dalla Biennale veneziana. Fu egli che con Nino Barbantini, con Gino Rossi e con altri ideò, prima della guerra, quella mostra, in Venezia, denominata Dei rifiutati, cioè dei respinti dalla giuria della Biennale. Tale spirito di rivolta era collaterale nei futuristi, ma quelli davano parole e proclami mentre Martini faceva statue.
Quanti aspirano ad essere considerati artisti, ad appartenere a questa schiera come a un rango nobiliare credendo diventare fortunati semidei, sappiano invece dall’esempio della vita di Martini che essere artisti vuol dire maggiore sofferenza e lotta che per gli altri esseri viventi. Martini ha consumato la sua vita tutta in corpi a corpo deprimenti, in lavoro estenuante, in continuo lamento ed esecrazione. Si potrà dire che ha guadagnato e dilapidato tanto denaro, ma la sua arte è tra le più esigenti di mezzi. Diceva che se fosse nato ricco avrebbe studiato musica, almeno poi avrebbe fatto le sue opere con l’aria. Si era messo a fare scultura perché, giovanissimo, invece poteva rubare la creta dai carri della fabbrica di ceramiche vicina alla sua casa.
Ricordo quando, a Milano, stava eseguendo in cemento, prima di tradurlo in marmo, il grande bassorilievo della Giustizia Corporativa ed era costretto a lavorare in una specie di enorme rimessa che per riscaldarla voleva due stufe di ferro che si arroventavano al carbone incessante. Fu qui che sedendosi ogni tanto per riposo sul cemento ancora umido si prese quella sciatica che doveva torturarlo a lungo con le cure più diaboliche.
Le nostre vite furono in comune dalla giovinezza e posso dire di averlo visto una sola volta felice, quando vinto il grande premio nazionale venne a Treviso e i primi ad andargli incontro per congratularsi furono quei camerieri dei caffè abituali, che, ancora lontano dalla rinomanza, gli prestavano i denari per le consumazioni. Essi erano orgogliosi di essere stati i soli e i primi ad avere fiducia in lui.
Sempre scontento, tormentato, sofferente per amore non corrisposto, per denaro mai bastevole, per tradimento dei discepoli, per supposto abbandono degli amici, per misconoscimento del suo lavoro: avrebbe potuto ripetere la frase amara di Michelangelo: “Non ho amici e non ne voglio” preso dalla medesima disperazione. Si pensi che fu costretto, quasi come una vendetta, a vendere a uno scultore d’America il suo progetto per un monumento al pioniere americano da erigersi negli Stati Uniti e a eseguire il lavoro con il nome dell’altro, perché un’artista come lui a Roma, nel dopoguerra, non aveva lavoro.
Da lui la scultura in Italia prese altro giro, assurse a ben altro livello, quest’arte senza di lui sarebbe rimasta alla forma oleografica e burattinaia di quelle sculture che hanno consumato vanamente il marmo di Carrara e attratto i turisti in viaggio di nozze nei cimiteri nazionali, dove in vero quest’arte periva con i defunti e si copriva adeguatamente di polvere. Egli fece statue che erano creature e testimoniano una nuova poesia.
Tutto crolla e si distrugge nel tempo, già molte sue opere che adornavano piazze d’Italia sono state frantumate dai bombardamenti, ma basterà che riesca a sopravvivere solo un frammento della sua Donna che nuota sott’acqua, anche senza segno del suo nome per sbigottire i posteri, i quali se avranno ancora il senso del bello e dell’armonia, dopo il diluvio già in atto, indagheranno su questo genio del nostro tempo e mordendosi le dita cercheranno con affanno di scoprire chi fosse.
Dopo anni di lotte e di lavoro finì per avere a quella Biennale veneziana, che era lo stadio olimpico per gli artisti, e che egli aveva tanto combattuto per migliorarla, ripetute mostre personali con intere sale che apparvero come selve di statue stupefacenti.
Ma è necessario dire e ricordare che per un’artista non basta una vita. Soprattutto bisogna ricordarsi bene, e ho avuto occasioni di scriverlo ancora proprio per Arturo Martini, che la vita di un popolo può sopravvivere, anche se di quel popolo si è smarrito il linguaggio, non per le sue vittorie industriali, politiche, commerciali e militari, ma per le sue opere d’arte rimaste sotto al crollo dei templi.
Solo le opere d’arte superstiti possono attribuire una civiltà immortale a quel popolo e per quanto si faccia per rendere agli artisti meno acre la vita, non si farà mai abbastanza.
Giovanni Comisso
Pubblicato su La Nazione del 18/02/1965 con il titolo “Ricordi di un tempo. Martini”.