Seguo il percorso da scrittore di Giuliano Gallini fin dal primo libro che ha pubblicato nel 2017 con la casa editrice Nutrimenti di Roma e che si intitolava “Il confine di Giulia”. In questo libro Gallini esplorava un terreno in cui la realtà e la finzione si mescolavano con sapienza, la Giulia del titolo si trovava al cospetto di Ignazio Silone e il romanzo si svolgeva in una sorta di tragica precarietà esistenziale. Questo tipo di realismo è stato mantenuto da Gallini anche nei due successivi libri. Ne “Il secondo ritorno” il personaggio principale è lo scrittore polacco Joseph Conrad, mentre “Storia di Anna” affonda le sue radici nella Ferrara di Bassani. Ci si rende immediatamente conto che, tra queste tre opere, esiste un filo comune, un discorso che Gallini ha portato avanti negli anni.
Con l’ultimo romanzo però Giuliano Gallini spiazza i suoi lettori della prima ora. “Qui non possiamo più restare” edito da Ronzani Editore di Vicenza nella collana Carvifoglio si distacca dalle tematiche care all’autore, ma si distacca anche dallo stile che Gallini aveva utilizzato nelle opere precedenti e che le faceva percepire come un corpo unico.
“Qui non possiamo più restare” racconta la storia di una comunità nata per dare conforto alle donne che hanno subito violenza fisica e psicologica. Il libro si apre in chiave drammatica, poco dopo che uno di questi episodi violenti ha avuto luogo, una donna viene portata su al Monte, dove le comunità diretta da Marcenda ha sede. La donna ha segni visibili di quella che sembra essere stata una tortura ed è chiusa nel suo silenzio e nella sua rassegnazione. Cioè che leggiamo in questo libro viene idealmente raccontato da una giornalista che avuto bisogno di Marcenda e del potere di guarigione della sua comunità. Una donna salvata per caso mentre stava cercando di portare alla luce i drammi del caporalato. La testimonianza che abbiamo di ciò che è successo viene dunque dalla voce di una persona che, per lavoro, dovrebbe raccontare solo i fatti.
La rassegnazione a cui accennavo, quell’esasperazione che Adele, la donna aggredita, porta dentro di sè fa da contraltare al ruolo attivo di Marcenda, una donna di origini portoghesi che sta dedicando la propria vita a ridare una nuova speranza alle persone ferite nel profondo. Una donna che è stata capace di rinunciare anche al proprio bene pur di riuscire a farne agli altri. Da questo contrasto prende via la narrazione di “Qui non possiamo più restare”.
Aggressioni, morti, proteste, più in generale una violenza che si genera e prende forza da sé stessa, proprio come la piccola palla di neve che rotolando diventa sempre più grande fino a prendere le proporzioni di una valanga. Ma come può Marcenda Werefkin difendere sé stessa e la comunità da tutto questo? Come può l’utopia riuscire a prevedere in sé dei meccanismi di autodifesa così efficienti da riuscire a contrastare anche l’imprevedibile? Forse la risposta è solo una: non è possibile.
In “Qui non possiamo più restare” si raccontano modelli che vengono calati dall’alto e che per questo non hanno un canale di comunicazione con la realtà che li circonda. Infatti:
“Si permette che alcune denunce diventino pubbliche per dimostrare che non sono state intaccate libertà e democrazia ma poi esse vengono accolte con indifferenza, screditate, e finiscono in nulla […] Poi, dopo un lungo silenzio, aggiunse che sapeva bene come questa sua opinione fosse condivisa con pochi poiché la maggioranza riteneva invece la nostra una epoca di grande libertà grazie alla messe di informazioni gratuitamente disponibili”.
E non si può non pensare che Gallini, con queste poche righe non abbia illuminato uno dei problemi più sentiti quando parliamo di internet e, in particolare, dei social network. Capita, in scala più grande, esattamente la stessa cosa che capita giù in paese. L’evento scatenante, che può anche essere visto come un semplice pretesto, ha a che fare con la scuola gestita da Marcenda su al Monte. Alla gente del paese non piace che ai bambini, durante le lezioni, venga tolto il “device”, non piace che venga meno il controllo.
In un libro di poco più di centotrenta pagine Giuliano Gallini riesce a creare un’opera che sconfina nel mondo della distopia. Il valore aggiunto di questo libro però sta proprio nella vicinanza che ha nei confronti della realtà in cui stiamo vivendo ora. Ci sono elementi che potrebbero essere sviluppati ulteriormente: l’invasione sempre più capillare della tecnologia, la possibilità di essere connessi 24 ore su 24 a un fiume di informazioni che, al suo interno, raccoglie di tutto, la facilità con cui il male riesce a trovare terreno fertile; elementi che in questo libro fanno quasi da corollario a quello principale, a quello che sembra essere quasi uno studio sulla vita e la morte delle utopie.
Giuliano Gallini ha abbandonato, almeno per il momento, la scrittura ariosa e lirica che aveva contraddistinto le sue prime tre opere e per affrontare i dolorosi argomenti di “Qui non possiamo più restare” ha assunto una voce più inquieta, meno rassicurante che rende la lettura di quest’opera uno strumento per indagare la nostra epoca.
Gianluigi Bodi
L’Intervista
[Gianluigi Bodi]: Dopo aver letto “Qui non possiamo restare” ho ripreso in mano le tue opere precedenti leggendo alcuni dei passaggi che avevo sottolineato durante la prima lettura e lo stacco tra loro e il tuo ultimo romanzo mi è sembrato evidente. Cosa ti ha spinto a esplorare questa nuova direzione?
[Giuliano Galllini ]: Cercavo una storia e una scrittura che mi consentissero di rappresentare con più efficacia i limiti del nostro pensiero. Ho allora abbandonato il realismo lirico dei miei romanzi precedenti (dove avevo sempre inquadrato i drammi in un orizzonte di senso) per una nuova poetica, meno consolatoria. Qui non possiamo più restare è una tragedia dove l’uomo è “un irragionevole pittore che si ostina a imbiancare i muri con un pennello sporco di sangue”, come dice Marcenda, la protagonista, e il suo ritmo e il suo stile esprimono soprattutto pietà e terrore come nelle più antiche tragedie. A tutti i personaggi succede che improvvisamente vedono il proprio mondo capovolgersi: cambiano i valori, le credenze, i sentimenti delle persone, anche di quelle che amano. E non avevano colto segni di questo mutamento.
La scrittura non è distesa, è inquieta, a tratti legnosa; ed è una specie di “non finito” come certe sculture dove solo una parte del blocco di marmo è sbozzato e lascia il resto alla immaginazione di chi guarda. In questo libro il lettore troverà anche misteri irrisolti, non sarà aiutato da facili verità (e nemmeno da buoni sentimenti) e avrà un bel po’ di lavoro da fare. Recentemente Giorgio Vallortigara ha scritto che leggere romanzi – è provato scientificamente – fa bene al cervello, inteso proprio come organo fisico; e che è meglio leggere romanzi letterari invece di romanzi di intrattenimento, perché “La differenza tra narrativa di intrattenimento e narrativa letteraria è che nella prima il lettore ha un ruolo eminentemente passivo mentre nella seconda è richiesto un ruolo attivo al lettore, il quale deve estrarre i significati per conto suo.” Ecco, questo è quello che ho cercato di fare, di dare un ruolo attivo al lettore. Spero di esserci riuscito.
“Qui non possiamo restare” ruota attorno al concetto di utopia, di quanto nobile sia pensarla, ma di quanto sia difficile, se non impossibile, realizzarla. Cos’è per te l’utopia e quali sono stati gli stimoli che ti hanno portato a darle una parte così importante della storia?
L’Utopia è un tema centrale in questa tragedia, anche se ce ne sono altri come la cura, l’alterazione della conoscenza, la crisi del lavoro, l’impoverimento, l’abitudine al male, tutti temi che hanno una loro autonomia ma che fanno anche un po’ da coro al primo. Marcenda e il suo gruppo si aggiudicano una gara pubblica per la gestione di un centro di accoglienza, in un ex convento abbandonato sopra un paese collinare che cerca di resistere allo spopolamento. L’operazione all’inizio ha successo e sembra che una piccola utopia sia stata realizzata ma un giorno una ospite viene aggredita e una sventura colpisce un bambino del paese. Con la violenza vengono avanti altri desideri, visioni del mondo diverse.
L’utopia e il suo contrario, la distopia, o, come propone Margareth Atwood l’Ustopia (un mondo dove è inevitabile la mescolanza tra elementi utopici e distopici) ha preso molto spazio nella narrativa contemporanea, credo perché la nostra vita sta assumendo sempre più il carattere dell’irrealtà a causa della velocità dei cambiamenti, in particolare di quelli tecnologici. Io ero interessato a raccontare un caso emblematico di abbattimento di una utopia realizzata, simbolo di come la nostra specie continuamente costruisca utopie e le abbatta, di come le sogni e le tema. L’utopia di un mondo senza guerre è sempre sconfitta da una nuova guerra e in Qui non possiamo più restare la protagonista si chiede perché le utopie si trasformino sempre nel loro contrario, e lo chiede anche a chi legge.
Nel romanzo il controllo delle masse è un argomento centrale della narrazione. I fantomatici “device” che citi, sono terribilmente familiari. Qual è il tuo rapporto con la tecnologia e quanta parte di questo rapporto hai messo nel libro?
Non ho un cattivo rapporto con la tecnologia, se penso alla mia vita quotidiana. Certo la velocità dello sviluppo tecnologico crea un senso di spaesamento e di liquidità che a volte ci fa pensare di vivere in un mondo non vero, in una Utopia quando troviamo subito sulla rete la risposta a un nostro quesito o in una Distopia quando ci rendiamo conto che ogni nostro passo e pensiero sono tracciati dai motori di ricerca. Non considero però una grande disdetta che la nostra specie e l’umanesimo possano un giorno essere superati dall’intelligenza artificiale, guarda che cosa stiamo combinando noi umani nei teatri di guerra, ancora oggi, in Europa. Ma l’altra faccia della medaglia è sicuramente che più tecnologia può implicare un maggiore controllo autoritario delle masse – o forse, al contrario, più possibilità per le masse di liberarsi? Non lo so: e ho ammesso questa mia ignoranza in Qui non possiamo più restare.
Il romanzo è ambientato in un futuro prossimo dove il possesso di un device è obbligatorio e dove il tentativo del gruppo di Marcenda di vietarne l’uso almeno ai bambini è uno dei motivi del conflitto che esploderà nella comunità abbattendola.
Il romanzo non è, comunque, solo la storia di una Utopia ma soprattutto una storia di sentimenti. L’amicizia e l’amore riescono a spingere – per un momento – la realtà oltre l’ingiustizia ma l’ingombro oppressivo di un sistema di potere rimette in discussione il sogno, e anche l’amore e l’amicizia si disperdono. In Qui non possiamo più restare si mostra l’amore in molte sue declinazioni. L’amicizia, la passione di un gruppo di amiche per la realizzazione di un centro di accoglienza, l’amore tra Marcenda e Teo Marini, il sindaco del paese, che non riesce o non vuole fermare la caduta del sogno, l’amore disperato di un padre per il figlio, la compassione per Adele, una delle vittime del crollo della piccola utopia. Come in ogni tragedia la percezione stessa della realtà si riduce in tutti i protagonisti fino a renderli ciechi e senza forza di reazione davanti a ciò che accade.
Leggendo Qui non possiamo più restare mi è sembrato di percepire un’aderenza nei confronti della situazione cha abbiamo vissuto negli ultimi due anni durante la Pandemia, soprattutto nella parte relativa alla crescita del dissenso nei confronti della comunità. Non so se la genesi di questo romanzo sia recente o se invece sia frutto di un’idea nata molti anni fa, però vorrei chiederti se e come la Pandemia ha influenzato sia la storia che la tua scrittura.
L’idea del romanzo e i primi abbozzi sono di alcuni anni fa, poi la pandemia ha sicuramente influito sul suo sviluppo e revisione. La crescita del dissenso, ma soprattutto l’essere presi di sorpresa da cambiamenti a cui non si è preparati, e che non si credevano possibili, è ciò che viviamo sempre più spesso, penso anche a ciò che succede in Ucraina. Sebbene il libro sia stato finito prima dell’inizio della guerra si vive tra le sue pagine, credo, un orrore e una incomprensibilità che hanno la stessa natura degli orrori e della incomprensibilità che vediamo in quel terribile conflitto. Dov’è che non possiamo più restare? In un mondo violento, in una società ingiusta, in una nazione in guerra, in noi stessi?
Giuliano Gallini – Qui non possiamo pià restare
Ronzani Editore
Collana: Carvifoglio
Anno: 2022
Pagine: 140
Isbn: 9791259970473
Giuliano Gallini è nato a Ferrara e vive a Padova. È stato per trent’anni dirigente di una delle maggiori aziende di servizi italiane. Ha pubblicato nel 2017 Il confine di Giulia, nel 2018 Il secondo ritorno e nel 2020 Storia di Anna, tutti editi da Nutrimenti Edizioni di Roma. Un suo racconto è stato selezionato da Francesco Permunian per la Piccola Antologia della Peste edita nel 2020 da Ronzani Editore.Hanno scritto di lui Ermanno Paccagnini (“La Lettura”, “Corriere della Sera”), Sergio Pent (“La Stampa”), Giulia Ciarapica (“Il Messaggero”), Davide Brullo (“Il Giornale”), Anna Maria Patti (Robinson, “La Repubblica” e “Casa Lettori”), Niccolo Menniti Ippolito (“La Nuova Venezia”, “Il Mattino di Padova”), Barbara Ardù (“La Repubblica”), Elena Giorgi (“La lettrice Geniale”), Chiara Cabassa (“La Gazzetta di Reggio Emilia”), Elisa Fabbri (“La Gazzetta di Parma”), Chiara Beretta Mazzotta (Radio 105), Anja Rossi (“Il Resto del Carlino”) e molti altri.