Le teste di Aquileia - Il viaggio in Friuli di Giovanni Comisso

Le teste di Aquileia – Il viaggio in Friuli di Giovanni Comisso

D’improvviso dal verde della campagna si alza una fila di colonne che fanno pensare a una ricostruzione romana in cartapesta per una cinecìttà trasferita in questa parte orientale del Veneto. Invece si tratta di quanto rimane del Foro di Aquileia. Come gli esseri umani le città nascono, crescono e poi ne rimangono solo le ossa: i loro ruderi sepolti e dissepolti.

Aquileia al tempo dell’impero romano era il porto più vitale dell’Alto Adriatico: collegava Roma, da Ravenna, alle strade militari verso il Settentrione e verso il Danubio. Dopo l’invasione dei barbari, si aggiunse l’abbassamento del terreno. La città con il palazzo imperiale, con il porto, anfiteatro, ville e necropoli scomparve per secoli. Quando la terra ritornò a fiorire, frumento e maggesi allignarono sopra ai vasti pavimenti di mosaici. Ora poche case portano questo grande nome di una città che era un emporio come Trieste.

Museo archeologico nazionale di Aquileia, piano terra, sala 1 (foto di MM, Wikimedia Commns)

Tutto gira, tutto scorre nella fatale cadenza della storia umana e geologica, ma qualcosa non riesce a scomparire per assumere una forza rivelatrice indistruttibile, nelle dimensioni dello spirito. Dalla necropoli di Aquileia sono emerse alcune teste statuarie funebri che fanno riflettere a lungo. Sono ritratti fatti eseguire al primo avvertimento di dovere venire a patti con la morte. L’artista doveva essere poco di più di uno scalpellino di provincia privo di cultura ellenistica, a cui veniva imposto di fare opera molto somigliante.

Questa documentazione di Aquileia ha la stessa potenza dei ritratti funebri delle mummie del Fayum. Quei romani del primo secolo dopo Cristo, che morivano in Egitto, adottata l’imbalsamazione, in uso in quel paese, volevano anche sul coperchio della cassa fosse applicato il proprio ritratto il più verista possibile per contrastare anche con questo alla dissoluzione della morte. Gli etruschi invece pensavano alla morte come a un rientrare nel grembo della madre dove vivere ancora e le loro tombe sono deposte nel grembo della terra scavato a imitazione di quella madre. Le statue etrusche, che coprivano i sarcofagi, non dovevano essere eseguite dal vero quando l’individuo era ancora vivo. L’artista riassumeva superficialmente i tratti e le caratteristiche del morto più che altro ispirato a un tipo di una specie, di una razza. L’uomo etrusco, così legato carnalmente alla vita, pareva volesse stare il più lontano possibile dal pensiero della morte e quindi non si decidesse a posare preventivamente. Per questo le statue funebri etrusche sono solo approssimativamente ritratti.

Nelle teste di Aquileia risalta invece la presenza dell’individuo, come fosse davanti a un giudice supremo che dovesse sentenziarle. Il committente romano «guarda l’obbiettivo» con tutta la propria angoscia e coraggio e l’artefice testimonia questo valore umano veristicamente dando all’arte un nuovo giro.

Museo archeologico nazionale di Aquileia (foto di Rino Porrovecchio, Wikimedia Commons)

Ad Aquileia, in una provincia italica, come in quella africana, l’arte del ritratto si libera dall’influenza ellenica fatta di schermi armoniosi, diventata come oggi si direbbe accademica, richiesta dalla società curiale e dominante. Nel museo di Aquileia risalta tale differenza, essendo state messe per caso alcune di queste teste funebri provinciali, vicine a altre di imperatori completamente vuote di potenza umana per ubbidire soltanto a linee schematiche come a quelle della capigliatura e dello sguardo aulico. Ma lo sguardo della testa del vecchio, dilatato e pieno di cattiveria, già forse tormentato dal male che doveva ucciderlo, mentre «guarda l’obbiettivo» che lo ritraeva, di fronte all’oscuro futuro che lo attende, grida con la sua personalità ritratta dallo scultore, ubbidiente come un servo minacciato.

Appena fuori un’acqua sgorga in un’urna, è fresca e saporita e dà il senso dell’estate immergendovi le mani fino ai polsi. È una vena di quella terra e più avanti un uomo affacciato a una finestra, estatico come se si fosse svegliato in quel momento con la sua testa friulana bionda e grossa e gli occhi lievemente incavati come dal riverbero della luce, ripete esattamente un’altra testa del museo. Viene quasi da parlargli in latino: «Domine…». Ci indica la strada per Grado che sorge dalla vicina laguna.

Il nome di questa città è quanto mai ingannevole, non è slavo e non ha alcun legame con il verbo gradire. Sembra invece che si riferisca alla caratteristica delle sue acque che nella bassa marea «degradano» così forte da allontanare il mare. Volevo fare il primo bagno quando mi avvertirono che il mare era degradato quasi a un chilometro dalla spiaggia. Deluso e non volendo ripiegare su di un bagno di sole, passai sotto a viali dolcissimi verso la città vecchia, per chiudermi in un caffè alla veneta.

Non avevo trovato il mare, ma avevo ritrovato un vecchio amico che non rivedevo da anni. Da un paese del Veneto si era trasferito con il suo caffè a Grado e si trovava bene. Ricordammo i tempi lontani e gli amici dispersi, mi congratulai con lui che appariva giovanile, nero ancora di capelli, ma egli soggiunse quasi spavaldo che per quello si faceva presto. Allora osservandolo meglio capii che era come mascherato in un suo aspetto giovanile. Si era imbalsamato e in un paese dove gli uomini invecchiando si dilatano nella pancia poteva essere fiero di risultare magro come un giovanetto. Sotto ai capelli tinti e ravviati in modo da apparire abbondanti non aveva potuto eliminare le rughe. Parlava dei suoi figli come fossero bambini, invece erano ventenni. La camicia con le maniche corte scopriva alle braccia quella sua magrezza che lo illudeva di essere indietro negli anni. Parlava dei vecchi amici come fossero diventati vecchioni imbecilli. Il suo volto mi ricordava quello di un tempo, ma anche un altro più marcato, sì, quello della seconda testa funebre del museo di Aquileia. Quello dell’ammalato di fegato con lo sguardo dilatato e le labbra sottili chiuse in tutta la loro lunghezza, come incollate da una saliva amara.

Giovanni Comisso

da Il Gazzettino del 22/07/1964.

Immagine in evidenza: Museo archeologico nazionale di Aquileia, piano terra, sala 2 (foto di MM, Wikimedia Commons)

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