Non basta che negli alberghi vi sìa il tradizionale focolare carnico, cogli alari e le panche attorno se poi si condisce la pasta asciutta con lo strutto.
In Carnia, come in Sicilia, non è facile vedere sorridere. Non si sorride, dove la vita è fatta di miseria e dì fatica. Dentro in un’alta valle arrivato al culmine della salita, mi fermai per buttarmi su di un prato dove occhieggiavano innumerevoli fiori azzurri. La neve era scomparsa da quel prato da dieci giorni e già tutto fioriva. Due ragazzine passarono per la strada tenendo in mano un grande mazzo di ranuncoli erano questi fiori assai più grandi di quelli che crescono in pianura lungo i fossi. I petali erano quasi come quelli delle rose. Dissi a queste ragazzine che un professore era riescito a tramutare quegli stessi fiori, innestandoli ad altri, in fiori rossi e azzurri, che si chiamano: le roselline di Firenze. Esse mi ascoltavano mute, comprendevano, ma non sorridevano, chiesi se me ne regalavano qualcuno, ed una sempre senza dire una parola, mise sul muricciolo della strada il suo mazzo, perchè lo tenessi e andarono via.
Ad alcuni uomini che erano vicino intenti a costruire una slitta chiesi informazioni sulla strada e in quale paese avrei trovato da mangiare, mi risposero brevi quasi economizzando le parole, e ripresero subito il lavoro. Non erano neanche curiosi dì me, non mi chiesero niente, donde venivo e che mestiere facevo. Così è fatto. Il carnico chiuso in se stesso e triste. Fuori da quella valle in un’altra, più ampia si vedevano dovunque donne intente ai lavori della terra. Zappavano, portavano il letame con le gerle, lo spargevano nei solchi, lo ricoprivano, vi seminavano e poi col rastrello accuratamente ripassavano ogni solco ravviandolo.
Si salutava con la mano o alla voce, ma nessuna di esse rispondeva curve nel lavoro. Subito dopo mezzogiorno, ritornando per quella strada, le stesse donne erano ancora al lavoro come se non avessero mangiato e non si imponevano alcuna sosta. In un’osteria il mio compagno prese la chitarra e incominciò a suonare, ma nessuno si fermò sulla strada ad ascoltare e la padrona e le sue serve parvero fossero per nulla toccate dal suono. Opprimeva vivere tra quella gente triste, e pensavo che se, come mi avevano detto, tutte le speranze della Carnia erano puntate sui turismo, ben poco vi era da sperare con la loro funerea accoglienza.
Ad un certo momento ebbi l’impressione che quella tristezza rasentasse in loro l’ossessione, quando un uomo, forse autorevole, saputo che ero un giornalista, mi venne a pregare di interessarmi ad un problema che sarebbe stato di grande fortuna per la Carnia. Mi pregò dì seguirlo, mi accompagnò attraverso cortili e orti fino al torrente e da lì mi espose il suo piano. Disse che si stava studiando una nuova linea di comunicazione ferroviaria tra Berlino e Trieste, secondo lui, questa linea avrebbe dovuto passare per la sua vallata, attraversare un monte, che mi indicò, e finire sulla valle austriaca del Gail di dove avrebbe potuto proseguire sia per Vienna, sia per Monaco e Berlino. Tutto sarebbe stato più breve, meno dispendioso, più rapido più utile e il treno sarebbe passato per la Carnia, togliendola dal suo isolamento. Non volli togliergli l’illusione, ricordargli che Berlino è un cumulo di macerie e divisa tra tre nazioni occupanti, che Trieste, non è più la Trieste di un tempo e vive sospesa. Gli dissi col tono che sì usa per un ammalato a morte, che al tempo di Roma la grande strada dì comunicazione tra i porti dell’Adriatico e la Germania passava per la Carnia e per il valico di Monte Croce scendeva Oltralpe. Lo testimoniano difatti alcune lapidi romane scolpite sulla roccia vicino a questo valico. Non finiva di invocare mi occupassi del problema e lo sostenessi e ancora lo confortai che lo avrei fatto. Penso ancora all’incubo di quell’uomo, e per molto tempo lo ricorderà nel suo aspetto tremante, che mi rendeva ancora presentì le mummie di Venzone nel loro vacillante inchino e anch’egli ridava alla sua Carnia l’appellativo: amara.
Non sono passati ancora sei anni da quando in questa zona bivaccavano diecimila mongoli con ventimila cavalli al servizio delia Germania e quel governo aveva promesso, vinta la guerra, di dare loro la Carnia per installarsi per sempre. Si erano impadroniti delle case, macellavano il bestiame e i pascoli erano per i loro cavalli. Dopo sono venuti gli inglesi e gli americani e tagliarono le foreste come avevano fatto nella Sila, radicalmente, da cima in fondo, come si fa con la falce per l’erba di un prato. E, insaziabili dì preda, si portarono via quei legname, rovinando per anni l’imboschimento di quelle montagne che costituiva la sola ricchezza. In diversi villaggi sono ancora visibili le distruzioni operate dai tedeschi. E anche gli italiani non mancano nel ritardare la ripresa di questa zona: sì pensi che in uno dei migliori posti di una vallata il principale albergo è ancora requisito dai carabinieri e dalle guardie di finanza come loro caserma.
Non si può dopo queste ferite e su queste impronte non ancora cancellate pensare a una attrazione di forestieri per amenamente villeggiare. Innanzi tutto bisogna attendere che siano completamente asfaltate le strade per le valli principali, perchè se il turismo ha come primo elemento l’automobile non si può andare per quelle strade, anche se mirabile è il paesaggio, per rìempirsi maledettamente di polvere.
La Camìa possiede molti pregi per attrarre ospiti a villeggiare: aria buona, paesaggi variati, campi per sciare, acque termali ed altro ancora, ma se non si rimedia alla miseria della gente facendola apparire meno triste, non é bello andare a svagarsi tra chi soffre. Qualcuno dice, naturalmente un albergatore: «Se venissero i forestieri, necessiterebbe un maggiore personale di impiego per il loro servizio, e la miseria comincerebbe a scomparire. Ma quando si vuole lanciare una nuova zona turistica bisogna essere prima organizzati alla perfezione, dagli sguatteri al padrone dell’albergo, dalla cucina alle stanze da bagno e non improvvisarsi, specialmente dopo una guerra che ha sconvolto terra e abitanti. Non basta che negli alberghi vi sia il tradizionale focolare carnico, cogli alari e le panche attorno se poi si condisce la pasta asciutta con lo strutto o se nella stanza da letto sì odono tutti i rumori dì quella del vicino.
Ma non è solo dì questa gente carnica sognare la grande idea che Berlino venga congiunta a Trieste attraverso le loro vallate o improvvisarsi ospitali compiuti per un movimento turistico, il difetto è, oggi, di tutti gli italiani che credono di essere sempre nel favore di Dio, riempiendo una schedina sulle gare del calcio e il giorno dopo di avere alcuni milioni in tasca.
Giovanni Comisso
da Milano Sera del 16-17/05/1950.
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