Di tutte le città del Veneto, Padova è indubbiamente la più vitale. Non è da credere che lo sia per la presenza di una gioventù goliardica, ma per una ragione ben più lontana, e cioè, perchè la sua gente non è veneta, ma euganea.
I veneti delle altre città nella loro dolce indolenza contemplativa e gaudente appartengono a un sangue greco lievemente corrotto da una dominazione latina. I padovani invece discendono direttamente dalle genti primordiali che abitavano i colli Euganei, antichi vulcani emersi dalle acque che coprivano la pianura padana.
I padovani hanno quindi nel loro sangue una forza vulcanica, ma di vulcani settentrionali, che ancora si tramanda nel contatto con questa terra nera e ferace. E quando si vede al centro della città elevarsi un grattacielo, verrebbe da ridere come di vano provincialismo, viene anche da ridere quando chiesto a qualcuno perchè lo abbiano fatto ci si sente rispondere: — Vuole che noi si sia da meno di Milano? — Ma ai padovani bisogna perdonarglielo e convenire che hanno il diritto di avere anche essi qualcosa che sfidi il cielo.
Non costruiscono quartieri nuovi e razionali su basi effimere, ma perchè hanno una vera potenza vitale per abitarli e goderseli. Basta vedere come camminano per la strada, come invadono le trattorie e i caffè, come mangiano e bevono, per capire che questi uomini alti e nereggianti son forti di una volontà integrale applicata al commercio, all’industria e all’agricoltura.
Come il grattacielo, per emulare Milano, hanno anche voluto avere una fiera campionaria che oramai si è radicata indissolubilmente. Ma quale gente vulcanica, abituata alle esalazioni solfuree, non si è ancora accorta che proprio accanto alla sede di questa fiera, alle porte della città, vi è una fabbrica pestifera che non rende accogliente l’arrivo. Certo non si sono posti il problema di allontanare da questa zona quella fabbrica, perchè qualsiasi problema che i padovani mettano in istudio viene prontamente risolto e attuato.
Per capire lo slancio e la prontitudine dei padovani si pensi che all’inizio dell’Ottocento «un ometto alto quattro piedi e mezzo», come dicono le cronache, Antonio Pedrocchi, ebbe l’idea di farsi costruire un caffè che a quel tempo non lo aveva neanche Parigi. Peccato che in questi tempi, per smania di modernità, si siano eliminati molti degli elementi decorativi che oramai appartenevano alla storia, come le carte geografiche che adomavano le varie sale.
La vitalità dei padovani è degna di attuarsi, ma va anche debitamente controllata. Così presi dall’ansia di valorizzare turisticamente i colli Euganei, nella loro giostrante bellezza, erano giunti al punto di volere turbare l’armonia della zona di Arquà, dove ancora serenamente risuona la cadenza delle poesie di Petrarca, con una autostrada accerchiante la borgata. Alla casa che Petrarca abitò fino al giorno della sua morte, non si deve andare in macchina, ma con massima reverenza a piedi.
Ancora vi sono alcuni quartieri della Padova cinquecentesca che non dovrebbero essere toccati, come la zona tra Pontecorvo e l’Orto Botanico e quella adiacente alla Specola, cara a Galileo. Invece proprio qui a qualcuno è venuto in mente di proporre di ricoprire il canale che la rasenta per farne una strada. Sarebbe una sorda bestialità togliere queste pacate acque dove la Specola si riflette, fiancheggiate da antichissime case giottesche, anche se si trova il pretesto che sono maleodoranti.
Maleodorante è la zona della fiera e per le acque, scavandone il letto, vi è sempre la possibilità di risanarle. Nella loro furia vitale i padovani non si preoccupano di riassestare le mura cinquecentesche erette dal Sammicheli in occasione della guerra della Lega di Cambrai, ma anzi, come il solito, sembra che le lascino franare, per un giorno abolirle e sfruttare l’area per costruirvi nuovi grattacieli.
Anche questo è un pessimo progetto, perchè quelle mura testimoniano un fatto di storia, e la storia di una città è come i sentimenti per la personalità umana. Ugualmente non si dovrebbe lasciare in abbandono l’Oratorio di San Michele, ora ridotto a magazzino, dove Jacopo da Verona, nel 1397, vi dipinse i ritratti dei Carraresi, signori di Padova. Ma il problema più impellente e più arduo è quello del restauro delle pitture di Giotto alla Cappella Scrovegna.
E’ già stato fatto un esperimento di restauro, ma la massima prudenza e competenza sono indispensabili per non guastare inesorabilmente un’opera che il mondo invidia. La vecchiezza, la polvere che vi ha aderito da secoli, l’umidità, in una città umidissima, rappresa durante la guerra, quando le pitture sono state protette da impacchi di sacchi di sabbia, hanno offuscato i colori.
E’ necessario non perdere tempo, non occuparsi di restaurare le pitture della chiesa del Santo che sono di scarso valore, e invece occuparsi di queste con studi precisi e calcoli perfetti eseguiti dall’Istituto per il Restauro, che ha dato tante prove di assoluta competenza.
E’ strano, Gasparo Gozzi, in una sua lettera, parla di una visita alla Scrovegna, egli sensibilissimo spirito, come adorna di opere d’arte comuni e inavvertibili. Anzi più che dalle pitture egli è stato colpito da una donna saccente che gliele vuole spiegare. Ma egli in quei giorni della sua vecchiaia era tormentato dalla podagra, e questa giustifica la sua incomprensione, se non si volesse anche aggiungere che nella fine del ‘700, i letterati erano ancora troppo presi dallo splendido tramontare della pittura veneta con Guardi e Longhi, per potere retrocedere nel gusto verso il primitivismo. Ma oggi è superata questa limitazione del gusto, e per Giotto bisogna compiere il miracolo a qualsiasi costo.
Giovanni Comisso