Andare verso la Sicilia è come un addormentarsi e subito essere presi da un concatenato susseguirsi di sogni che si svolgano in epoche non vissute. Quel passaggio dello Stretto di Messina è veramente un trapasso, ci si stacca non solo dall’Italia e dall’Europa, ma dalla vita per entrare in un’altra. E’ poi inutile che la memoria o le guide di viaggio, che sono nella mia valigia, vogliano documentare su quest’isola una trama storica fatta con l’impresa di Garibaldi, col terremoto del 1908 o con lo sbarco delle armate inglesi e americane ; la sola storia che predomina su di essa è quella delle epoche di penetrazione greca e araba. Persino quella di dominio romano passa inavvertita, come quella di dominio normanno. E ci si convince, se si raffigura quest’isola triangolare, sospesa tra l’azzurro del mare e la luce irruente del suo cielo, come un fiore creato in modo da essere soltanto penetrato e fecondato da determinati insetti e non da altri.
I greci insofferenti della propria patria, smaniosi di fondarne una nuova e gli arabi che trovavano insufficiente la breve fascia costiera della terra d’Africa, sono stati i naturali insetti destinati ad accrescere la straordinaria splendidezza di questa isola-fiore. Altri popoli approdati in Sicilia, come il Romano e il Normanno, sono stati soltanto intrusi infecondi. Oppure, passando ad altra immagine, i venti buoni non possono essere per la Sicilia quelli che spirano dal settentrione, ma quelli che formandosi a oriente o a mezzogiorno di essa vi arrivano apportatori di sementi, di uccelli gai e canori, temperando con il loro tepore la dura terra.
Delle due epoche feconde, quella greca e quella araba, vive ancora l’impronta del sangue della gente che è in parte dolce e danzante e in altra parte ardente, belluina e come scenario stanno ancora i ruderi dei templi solenni e le vestigia salienti delle moschee e delle ornamentazioni moresche.
Lungo la riva del mare, appena entrati nel sogno, il sole splendeva accecante e i paesi si susseguivano l’uno all’altro senza interruzione, accanto alle pendici rigogliose di aranceti e di vigne. il verde copriva la terra dovunque, e persino i muriccioli verdeggiavano di muschio come drappi di velluto. Sovente macchie di fiori rossi e bianchi sostituivano il giallo della frutta. La terra era feconda senza stagione di sosta.
Taormina sta sul ciglione del monte e toccò lasciare la riva del mare rotta di scogli nerastri con isolotti fantastici. Quando giunsi al paese compresi che doveva essere stato costruito lassù come un belvedere, da cui ammirare il mare azzurro tra il rosso dei fiori sparsi sui pendii e il nero dei cipressi e oltre al mare la piramide dell’Etna dal vertice infuocato e fumoso. Non era possibile stare dentro a una stanza Se questa non rivelava dalla finestra quel paesaggio che ormai aveva afferrato per difficilmente liberarsene. Presi subito la strada che porta al teatro greco. Il mare rivelava tutti i suoi fremiti, si incupiva, si incupiva e si schiariva secondo il variare del vento e il gioco delle piccole nubi alte nel cielo. Accanto a un cespuglio una capra brucava l’erba e il suo capretto bianco la segui belando, come essa si scostò insospettita, infine gli concesse di succhiare le mammelle fermandosi e piegando le zampe in modo da scoprirle.
Il mare era dietro di essi, giù, vasto e schiarito, e l’Etna si alzava lontano con la sua neve dietro la nera testa della capra luminosa d’occhi materni. Alla svolta del viottolo saliva un pescatore con canestro del pesce sulla testa, era scalzo e vecchio, e si fermò per calmare l’ansia della salita. Guardava timido, con la mano cercò qualcosa nel canestro che teneva sempre sulla testa e mi offerse in dono una stella marina rossa, come di corallo. Non vuole denaro, gli bastava in cambio soltanto il resto della sigaretta che stavo fumando, come per una comunione tra noi. Ogni incontro diventava fermo e indimenticabile, afferrava ed era subito come uscito dal tempo.
Il teatro greco si dischiuse vicino e quando giunsi alle gradinate più alte, il paesaggio si inquadrò tra le colonne e gli arti del palcoscenico come poco prima tra le gambe e la testa della capra allattante o tra il canestro del pescatore e la sua mano, ma la rossa stella marina era sostituita dal rosseggiare del tramonto.
Nel proseguire verso Siracusa a ogni fermata del treno subito si avvertiva l’odore dei fiori. Nel l’ombra degli alberi pochi contadini stavano intenti a raccogliere le arance che tappezzavano il terreno. Ma a un tratto nel passare da un paese a un altro la terra rigogliosa si mutò in una valanga di cupa roccia. Era la lava che resisteva ancora a farsi terra vegetante. Poi il mare divenne spumoso, vicino ad Augusta, sotto la sferza dello scirocco e fremeva anche la breve acqua delle saline. E dopo, la riva si distese arsa e incolta. Spianate si inclinavano lontano, monti brulli si profilavano all’orizzonte, fichidindia, qualche alberello di carrubo e cespugli di geranii selvatici davano la misura della distanza, mentre la costa rocciosa e nera si infrangeva contro l’azzurro del mare ogni tanto illuminato dal verde dei fondali. La luce precipitava dal cielo, alta è lontana dovunque e fu sotto questa stessa luce che andai a vedere la zona delle rovine camminando ora sulla ruvida erba, ora su spiazzi di roccia che forse erano pavimenti di antichi templi. La roccia di questa zona fuori dalla città si apre nelle misteriose voragini delle Latomie, o si incavola dolcemente per raccogliere la conchiglia del teatro greco che è veramente ancora sonora nei lamenti di Edipo a Colono e nelle infrenabili invocazioni d’amore di Fedra. Allora la tragedia greca rinfrancava gli uomini con gli esempi di insuperato dolore, e il mare affiora nel suo barbaglio dalle spianate di roccia e il cielo nel variare del vento e della luce stanno ancora ad assumere come migliaia di anni a dietro il ruolo complementare della scena. Oltre a questa immensa zona di rovine dove la pietra di esse ritorna roccia della terra, dopo le mura greche della città militare che accavallano i crolli degli assedi a quelli del tempo, spuntano i ruderi del castello di Eurialo come i resti in mani delle sue torri dall’alto delle quali forse Archimede durante l’assedio dei Romani comandati da Marcello, raccoglieva negli specchi questo sole saettante per renderlo incendiario sulle navi accerchianti.
Di ritorno in città passando da una strada all’altra dove la gaiezza della gente si scopriva come essa abbia escluso dalle sue pene quella del rigido inverno, giunsi nella piazza del Duomo e dopo avere osservato distrattamente la facciata barocca, mi accorsi che la parete della chiesa era da un lato formata massicce colonne doriche. Stavano queste colonne tutte di un pezzo interposte al muratura che le congiungeva e tentava di nasconderle togliendo quell’aria e quella luce che un tempo circolavano attorno a loro. La chiesa cristiana soffocava quelle colonne che erano state del tempio di Minerva, ma esse reagivano con la potenza della loro massa. Era una lotta tra due architetture, tra due idee della divinità, tra la stessa pietra che aveva assunto due forme diverse, ma quella che appariva soccombente infine trionfava nel dare all’altra la forza di reggersi. Entrai nella chiesa e ne vidi altre, ma libere, elevantesi per otto metri su dal basamento formidabile per restringersi con giustezza di armonia, scannellate come a colpi di scure, tutte di un solo blocco di roccia, della stessa, vista arrivando a Siracusa, corrodentesi al mare e alla luce. Volli toccarle, palpare il freddo scabroso della loro materia per imprimerle nel ricordo. Erano il divino, il vero e l’unico sostegno di tutta quella chiesa e sopportavano serene tutto quanto era stato aggiunto per impoverirle, per negarle e per servirsi di esse come di elementi riempitivi e secondari.
Giovanni Comisso
Pubblicato nel numero speciale della rivista “L’Illustrazione Italiana” dedicato alla Sicilia del Natale 1952.
Immagine in evidenza: Panorama dal teatro di Taormina (foto di Łukasz Stachowiak, Wikipedia)