Leggo “Ultimo Parallelo” (Il Saggiatore, 14 gennaio 2021) di Filippo Tuena e rimango qualche istante a immortalare pensieri. La trafila di rimandi alla Letteratura è così lunga e inebriante che mi sento sopraffatta dalla materia che esige un principio riordinatore. Mi appresto al lavoro con l’enfasi della sfida ma l’impresa è ardua, perché scorgo da subito che in quel lembo di terra desolata, immobile e bianca, che è l’Antartide scorre più vita che in ogni dove.
Distinguo nitidamente un corteo affollato di miti, di uomini, di fantasmi che racchiudono un elevato potenziale di significazione. Tra tanti: l’insalvabilità dalla solitudine dell’io di Thomas S. Eliot, l’Ulisse di Dante, l’uomo che si è avviluppato nelle sue stesse immense capacità; la malinconia terrena e patetica di Mefistofele, il male benigno, del ‘Faust’ di Johann W. Goethe e quanto ci giunge dalla riflessione circa la sfida dell’uomo con la Conoscenza; il riverbero del Doppelgänger – più secondo l’uso poetico che non quello psicoanalitico – che ammanta la figura dell’Incappucciato, colui che, fatto di sola voce (narrante), accompagna la spedizione in quella che mi ricorda essere “la stanza senza porte” del meraviglioso “Golem” di Gustav Meyrink; il mito di Prometeo; la terre gaste dei poemi epici medievali e la ‘conquista’ del Graal; la citazione del Wanderung dei romantici, ovvero l’enigma del futuro.
Sul fondo, un’immagine su tutte: la nebbia dell’Elbsandsteingebirge del quadro “Der Wanderer über dem Nebelmeer” di Caspar David Friedrich.
L’Antartide mi appare come una pagina bianca su cui i poeti hanno già scritto quello che sarà per gli esploratori.
“Ultimo Parallelo” di Filippo Tuena è il racconto della spedizione britannica in Antartide (1910-1913) in cui la squadra del Southern Party capitanata da Robert Falcon Scott perse la vita, ma può anche non esserlo. Anzi, non lo è nonostante di questo parli.
Lontano dal frigido modus operandi del romanzo storico – ma non dalla ricerca bibliografica e documentale – “Ultimo parallelo” è anzitutto la dimostrazione che si può scrivere senza inciampare nella prevedibilità della ricostruzione fattuale, nell’intento celebrativo della storia che è, o immaginiamo sia stata, o in una scrittura tassidermica che nulla aggiunge a quanto si conosce già.
Le pagine del romanzo puntano verso una latitudine psichica che suggella il legame dell’uomo con la memoria del suo passato e col presente svelante, attraverso una volontaria e fantasmica evocazione di frammenti di un’esperienza vissuta soprattutto con la vulnerabilità del cuore e con la fallibilità del pensiero umano, dentro uno spazio (extra) letterario che imprime alla Storia e alla parola scritta un codice e un senso universali.
Quello che gli esploratori compiono, infatti, somiglia più a un viaggio privato e paradigmatico verso un interluogo che li separa dal resto del mondo la cui esatta localizzazione può essere solo di natura personale prima ancora che geografica. Dopo aver nutrito un sogno al limite dell’impossibile e dato prova di una resistenza eccezionale, cominciano a “percorrere la fase discendente funestata da disaffezioni, cataclismi, errori, sfortune”, iniziano, cioè, ad assassinare la convinzione e l’illusione che li hanno spinti a tentare l’intentabile, cominciano a ‘recitare addii’, per poi perdersi ognuno nel proprio destino luttuoso.
“La questione non appariva più quella di segnalare quell’esatto, quanto piuttosto la meta individuale che si erano prefissi ed è in quest’ulteriore incertezza che ho visto perdersi di esploratori ancora una volta. Spogliati dalle illusioni, si trovarono a fronteggiare l’essenza nuda e feroce del viaggio; quando si trovarono a porsi domande che avevano sino ad allora eluso e, pur cercando di non darsi mai risposte furono costretti ad affrontare la quintessenza dei loro desideri.”
“È bastato che cinque norvegesi li precedessero per trasformare tutto in deserto o forse era tutto già deserto prima che Scott e i suoi compagni lo constatassero di persona, pensa Atch e i suoi pensieri mi mettono i brividi mi fanno tornare ancora una volta nel nulla da dove provengo.”
Sullo sfondo della conquista mancata e della competizione con i norvegesi, narrare assume il tono e l’incedere di un misurare la vicenda sul piano umano ed escatologico: raccontare l’annichilimento di questi uomini, la coscienza del lento morire senza fare ritorno, lo smarrimento dentro la propria solitudine ( “una solitudine che annulla il genere e mette a nudo la fragilità”) mentre si preparano ad accogliere la fine che qui, in un luogo che non esiste, dove la terra smette di girare e il tempo scorre lungo un nastro continuo di Möbius che mai si buca, acquista un valore tanto più assoluto e pregnante se determinato dalla distanza che li separa dal resto del mondo. Allora morire equivale a scomparire senza una ‘sepoltura lacrimata’ lì dove i corpi (alcuni mai rinvenuti) di Robert F. Scott, Edward Wilson, Edgar Evans, Lawrence Oates e Henry Bowers giacciono sotto un tumulo di ghiaccio.
In certi passaggi animati dalla estenuazione fisica, il senso di macabro si fa più vistoso e impressionante.
“I loro abiti hanno qualcosa di funesto, di appiccicoso, come fossero sudari intrisi di umori cadaverici e sotto quelle giacche a vento ghiacciate incartapecorite si immaginano le camicie rivoltate più volte, le maglie di lana lacerate dal sudore rappreso e, ancora più sotto, le mani e i piedi ormai segnati dei sintomi del congelamento, piagati, doloranti macerati, con macchie bluastre sulla punta delle dita.”
La mattanza dei pony nel campo ribattezzato Shambles Camp che avvenne come l’attuazione di un disegno prestabilito e inutile, e l’immagine di una morte “ingerita” al servizio di un’altra che sta per compiersi altrettanto occultata dalla neve, dalle distanze geografiche, dalla memoria, conferisce alla storia il preludio simbolico del disfacimento della spedizione.
Più il cammino avanza verso sud, in un contesto che fonde miticamente la relazione fra l’uomo e la conoscenza, foriera di emarginazione e di solitudine, e più ci appaiono chiari i connotati di una dialettica funebre di cui avvertiamo il senso di sacralità e un intento quasi liturgico della parola scritta. In prossimità del nulla, del punto che non esiste, in cui convergono inizio e fine, vittoria e sconfitta, la scrittura recita un requiem come pure i diari superstiti si piegano all’ovvietà dell’irrimediabile.
Dal diario di Robert Falcon Scott si legge:
“Fossimo sopravvissuti, avrei avuto una storia da raccontarvi sull’ardimento, la resistenza ed il coraggio dei miei compagni che avrebbero commosso il cuore di ogni britannico.”
Sono queste le tematiche che il libro affronta, soffermandosi essenzialmente sul valore meditativo che accompagna la spedizione.
Filippo Tuena è un veterano della narrazione umanizzante e tridimensionale della Storia. Sa cosa significa trovarsi faccia a faccia con l’impossibilità di privarsene e di tacerla, come renderle giustizia e violarla senza infrangerla. Il suo è un talento capace di ri-progettare la storia mentre la riscrive, di espanderla mentre ripercorre le possibilità ricevute in eredità (su un piano letterario oltre che storico), servendole un’anima, una voce, un pensiero, un Urzeit ideale che l’ha partorita, perché non esiste, dopotutto, storia che non abbia una dimensione contemplativa da raccontare.
Nella nuova edizione, arricchita di una prefazione e di testi inediti dell’autore, si forniscono i tratti significativi della genesi dell’opera in cui le informazioni circa le contaminazioni letterarie, i debiti con The Waste Land di Eliot soprattutto, e la funzionalità del ‘quarto uomo’, consentono di mettere in luce, da una parte, la ricchezza e la complessità anche strutturale dell’opera, la scrittura frammentata e meditativa in bilico tra dentro e fuori la scena, dall’altra, di cogliere una commemorazione, un atto di visita che l’autore compie su luoghi e momenti passati ancora vivi e presenti.
Paola Milicia
L’intervista
(Paola Milicia) Nei tuoi romanzi la storia e la finzione narrativa sono così ben assortiti e abilmente accostati che sembrano essere un tutt’uno inscindibile. Quale margine possono avere l’immaginazione e l’immedesimazione nel processo di ri-scrittura della Storia, dove, cioè la necessità di autenticità della documentazione e l’inviolabilità della realtà si impongono sulla finzione? Come interagiscono le due componenti realtà – finzione?
(Filippo Tuena) Nei miei libri c’è molto poco di immaginativo nelle vicende che racconto. Cerco di attenermi per quanto possibile ai dati reali, a quel che effettivamente è accaduto. La parte creativa direi si sviluppa su due versanti. Da un lato, la scelta, la selezione del materiale su cui lavorare. Già questo implica un punto di vista particolare. Privilegio alcune situazioni e su quelle imbastisco la vicenda che m’interessa. Dall’altro lo stile, la scrittura. I miei libri credo non abbiano nulla della saggistica. Rimangono legati alla narrativa. Ultimamente sto lavorando su una sorta di prosodia, di lirica narrativa che mi consente di tagliare tutto quel che non serve alla storia. Può darsi che nei prossimi libri sia piuttosto drastico nell’eliminare gli orpelli.
Parliamo di esploratori ed esplorazioni. Oggi che la Terra appare conquistata in lungo e largo e in certi termini, governabile, cosa proporresti di ri-scoprire della vita umana sul pianeta? Quale valore o attitudine andrebbero riesaminati che questi esploratori avevano e che sono invece estinti nell’uomo odierno?
L’esplorazione, almeno per me, riguarda sempre il passato. Dunque, più temporale che geografica. Sto lavorando sui miti greci e li trovo pozzi senza fondo, utilissimi a scoprire il presente, a riconoscerci. Le Galanti – il mio ultimo libro – privilegiano quest’aspetto: le fonti letterarie delle opere d’arte. E si finisce quasi sempre per tornare all’Ellade. All’Argolide, alle Cicladi. Almeno per quel che mi riguarda il nostro pensiero è nato lì.
Ultimo parallelo è un enciclopedico – nel senso di inesauribile – impiego di fonti letterarie e di citazioni che quasi gareggiano a chi più di altre detiene il senso compiuto del romanzo. Quale passaggio letterario o citazione meglio lo definisce? E perché?
Credo i versi di Eliot sulla presenza dell’uomo in più. Il libro è nato proprio su quella suggestione che è poi la suggestione di ogni lettore quando affronta un libro e, perché no, di ogni scrittore, quando si trova al tavolo di lavoro.
Quando ho scritto la tesi universitaria su un autore sconosciuto in Italia, la fase della ricerca biblio/biografica è stata quella di cui serbo una commozione e un ricordo speciali: per certi aspetti, esploravo anche io un luogo (in questo caso una biografia) ignoto e insidioso mentre ricomponevo traiettorie viventi. Ricordo che è stato bellissimo. Cosa provi di fronte a una fonte documentale, o un rinvenimento, e cosa deve avere questa perché possa spingerti a immaginare un romanzo?
Quando trovo una fonte il primo impulso – che è poi anche quello decisivo – è condividerla col lettore. Per questo alterno nei miei libri immagini e testo. Le immagini servono per mettere il lettore di fronte al documento; ne garantiscono l’autenticità. Una volta trovata la fonte, una volta inserita nuda e cruda nel testo, il lavoro è quello di saperla raccontare, di investirci tempo e capacità. Mostrare il mio punto di vista e suggerire al lettore di impegnarsi a trovare il suo. E’ il lettore che fa il libro.
Nel romanzo il narratore è un uomo che viene dal nulla, una voce senza volto, l’inatteso, l’uscita. Potrebbe essere Mefistofele, Caronte, un’entità neutrale, una sorta di demone tra il mondo sensibile e il mondo sovrasensibile, uno psicopompo. Ci puoi svelare chi è costui o chi non è visto che si presenta come la somma di molte esperienze mitologiche e letterarie? E quale il tuo rapporto con la narrazione fantasmica o onirica a cui più volte ricorri ?
Come dicevo prima il protagonista occulto del libro è il lettore. Ed è anche l’autore. Queste due figure entrano ed escono continuamente dal testo, sono costantemente attive e passive. Intervengono, manifestano le proprie passioni, le proprie idiosincrasie. A volte l’una prevarica l’altra. E’ un match che m’interessa molto.
Cito dal romanzo. “Ormai è il dopo che conta. È quello che rimarrà di questa storia a fare la storia, e non quello che è veramente accaduto.” Cosa ti è rimasto quando hai terminato di scrivere Ultimo parallelo e cosa vorresti conservasse il lettore?
Una profonda nostalgia perché l’atto creativo di scrivere è molto coinvolgente. Ci si appassiona ai personaggi, così come alla storia. Per questo, quando posso, cerco di tornare sul luogo del delitto. Nell’edizione 2021 di Ultimo parallelo non ha modificato il testo originale (prima edizione 2007; seconda edizione 2013) ma ho aggiunto sessanta pagine di prefazione nelle quali racconto l’origine del libro e ragiono sul come è uscito dalla mia penna; e in appendice ho trascritto una trentina di pagine inedite, tratte da tre versioni intermedie che documentano il lavoro di lima che ho fatto. E’ un modo per rimanere legato ai vecchi amori.
“Ultimo parallelo” di Filippo Tuena
Editore: Il Saggiatore (14 gennaio 2021)
Copertina rigida: 432 pagine
ISBN-10 : 8842829331
ISBN-13 : 978-8842829331
Peso articolo : 500 g
Dimensioni : 21.8 x 3 x 15.1 cm
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