Gravitano verso Levante tutti i fiumi del Veneto, insieme al Po, recando le loro sabbie, le loro melme e i loro sapori che si elevano contro il sole nascente e i voli dei gabbiani che vengono dal mare. Verso la fine le loro acque si dilatano in canali, in derivazioni innumerevoli tra i campi di frumento fulvi come il mantello di un leone, arruffati, squinternati dal vento.
Si segue il canale del Brenta, che anticipa, colla luce chiara sulle case, lungo le rive, le prospettive dei paesi lagunari. Gli alti comignoli delle case, le ombre tagliate nette, le barche a vela cariche di sacchi e l’odore della salsedine. Un’anitra solitaria, un ragazzo voga su d’una barca; il canale ad ogni curva rivela Ville e case che si specchiano sulle acque. Lungo la strada coppie di cavalli trainano i barconi, splendono al sole i metalli dei finimenti e i decori delle prue pesanti. Una dietro l’altra si susseguono le ville nella fresca ombra dei giardini, e i passi si allacciano gli uni agli altri senza interruzione, come un sobborgo senza fine. Poi viene la terra irrigua, solcata dai fiumi che impigriti nel lungo percorso creano isole e valli. E come essi portano seco le proprie sabbie, le proprie melme, le proprie acque, così danno agli abitanti costieri nel parlare un accento che ricorda quello delle regioni superiori attraversate.
A Cavarzere, dove ancora il vento sulle acque rigonfie dell’Adige risente le montagne, gli abitanti parlano con una lontana, ma avvertibile, cadenza veronese; e nell’isola di Ariano, tra i due rami maggiori del Po, con un accento forse mantovano, ma certamente non corrispondente a quello dei paesi attigui. Seguono le cadenze del parlare degli uomini il corso delle acque, come le sabbie, come le melme. Da Ariano verso Mesola non si vedono che striscie di terra alternate ad acque fino al più lontano orizzonte. Sono terre nuove che sorgono ad ogni girare di secoli e gente nuova che con esse nasce e si consolida. Una gente che ha lottato contro l’inconsistenza della terra e che è sorta, come nel mito della creazione, dal fango. Le biade lumeggiano mature sulle terre prosciugate, tra un canale e l’altro dove l’acqua è tenuta incatenata.
Mèsola, col suo castello e le case basse tra gli alberi, sta quieta nel silenzio delle acque come un’anatra selvatica stanca di voli. Galleggiano le erbe palustri, qualche albero si eleva altissimo e solitario, l’aria è greve, grosse serpi si snodano tra i cespugli, bianchi buoi accovacciati nei pascoli alzano le lunghe corna come sterpi, lontano come un incoraggiante richiamo appare il campanile della Basilica di Pomposa. La facciata scabra è d’un colore di ferro arrugginito con tazze di ceramica faentina verdi, azzurre, gialle, rosse incastonate, come pietre preziose. Il campanile sale col giuoco romanico delle finestrelle progredienti di numero, come per accompagnare il diffondersi delle campane: dal basso alla cima. I fregi, i gruppi sepolcrali romani connessi ai mattoni della facciata, la riavvicinano a una conchiglia che abbia soprapposti parassiti tenaci. Sopravvive questa basilica dopo secoli di rinomanza e di ricchezza, quando per questa strada, grande era il passaggio di chi andava a Roma e gli abati avevano su questa terra ampio potere come principi. Poi venne l’abbandono e lo squallore favoriti dalla malaria e dai nuovi percorsi dei traffici e l’abbazia fu in parte ridotta a stalla col bestiame riposante sotto al Cristo benedicente del refettorio.
Oltre Pomposa la strada prosegue su sottili lembi di terra tra le valli, che altro non sono che ampie lagune. E’ in queste valli che si fanno le pesche miracolose di anguille, di cefali, di orate e di brancini. Dal mare il pesce tende a risalire verso acque più fresche e più nuove. Molto pesce si semina nelle valli; cioè viene immesso dopo averlo pescato novello in altre zone del mare, ma altro viene attratto come in trappole facendo scorrere nelle valli che hanno comunicazione col mare una delle tante vene d’acqua dolce defluita dai grandi fiumi che qui sfociano. Allo scorrere della nuova acqua il pesce accorre risale per i passaggi obbligati, fino ad imprigionarsi nella valle destinata al suo soggiorno. Per selezionare un tipo di un pesce da un altro e così i maturi dai giovani, si aprono le chiuse dell’acqua corrente e si calano i graticci, così per questi stacci passeranno i piccoli verso la zona superiore, e i grossi, quelli che si vogliono catturare, rimarranno nell’inferiore.
Ogni valle ha i suoi guardiani, ma non sono mai sufficienti per eliminare i pescatori di frodo, che in tutta questa vasta zona costituiscono ormai un tollerato mestiere. Centinaia di uomini non si vedono mai al giorno, la loro vita incomincia con le prime tenebre, lungo le infinite rive delle valli, dove è assurda la sorveglianza. I guardiani abitano in casoni dove predomina un grande focolare e tutto attorno stanno le panche che servono a loro anche da letto. Il passare d’inverno a lavorare nelle valli, cioè durante l’epoca in cui si fa la pesca, da settembre a gennaio viene da essi definito latinamente con queste parole: stare infraima (inter hiemen) il che fa pensare che quest’arte delle valli sia antichissima. Ma lo stare isolati e dispersi in queste lande d’acqua, esaspera dopo alcune settimane specialmente i giovani, crescono le barbe, si fanno leticosi e allora il vecchio capo guardiano è costretto mandarli al paese più vicino, a levarsi la ruggine (cosi mi disse uno di questi) datagli dallo stare infraima.
Comacchio è la capitale di queste valli, si vedono le strade battute da uomini in bicicletta con una cassa davanti e una dietro piene di pesce, che portano verso il Ferrarese e verso la Romagna: venditori di pesce, girovaghi.
Il vento, il fango, e le acque sono gli elementi in costante contatto con questa gente, e sconvolte le chiome, motosa e bruna la pelle altri si vedono ritornare dai lavori di bonifica o dalla pesca. Lontano circa cento chilometri da Venezia, si ritrova in questa città il canale tra le case con le barche attraccate alla riva e i ponti che passano da una parte all’altra E l’anguilla è il conforto per il venturoso viandante che abbia voluto ripercorrere la via Romea, ma per sentirne tutto il denso e nutriente sapore bisogna mangiarla alla maniera selvaggia dei guardiani di valle, arrostita alla fiamma, infilzandola tutta intera allo spiedo, alternata a foglie di salvia. Questa è, come si usa dire, la sua morte, vale a dire il modo migliore per gustarla.
Giovanni Comisso