Giovanni Comisso a Parigi con Svevo e Joyce

Giovanni Comisso a Parigi con Svevo e Joyce

La cassiera posa le sue braccia sopra un foglio dove sono scritti i nomi degli invitati, su d’un piatto vi sono alcuni biglietti da dieci franchi celestini, e uno da cinque roseo. Il celeste e il rosa, come piacciono perdutamente ai francesi. Sono colori già amati nel settecento europeo. Sono i colori che si mettono nei corredi dei bambini a seconda che sono o femmine o maschi. L’esercito francese è fornito di divise celestine. Le labbra e le guancie delle donne parigine sono rosa. Le statuine di Sèvres, nelle botteghe degli antiquari di rue des Saintes-Pères, mostrano cavalieri vestiti di celeste che avanzano a tempo di minuetto, tenendo alta la mano della donna in crinolina rosa. Le réclames luminose dei café-piaisir, di Montmartre e di Montparnasse furono originariamente rosa e celeste, ora sono blu e rossi (l’intensità è accresciuta): rossi per le donne, blu per gli uomini. Biglietti da dieci celestini, biglietti da cinque rosei.

James Joyce, ph by Alex Ehrenzweig, 1915

Attendo che Mac Orlan paghi la sua quota. La cassiera mi chiede il mio nome, l’aiuto a cercarlo sulla lista. Eccolo, viene dopo quello di James Joyce. Venticinque franchi sono troppo pochi. Qui non c’è neanche consuetudine di mancia. Peccato. Vorrei lasciare cinque franchi di mancia. Ma James Joyce è ammalato. Ho visto esposta una sua fotografia, il suo occhio sinistro è corroso. Non verrà. Non verrà assolutamente.

La tavola bianca si svolge a ferro di cavallo lungo le alte pareti come nel refettorio d’un convento. La sala è ancora deserta. Benjamin Crèmieux, l’organizzatore di queste cene letterarie in onore degli scrittori europei eminenti di passaggio a Parigi, appare e dispare nella cortese preoccupazione di fare le presentazioni, di dare gli ultimi ordini alla cucina. Questa cena è in onore di Italo Svevo e della sua «Coscienza di Zeno», ora tradotta in francese! Il successo di Zeno si è delineato subito. Thérive sull’Opinion ne ha parlato a lungo, istituendo un raffronto tra lui e Proust. Il pubblico francese giunge persino a preferire Italo Svevo, perché più chiaro nella minuta osservazione.

Jsaak Babel, che ho già incontrato in un atelier d’un pittore amico, e del quale, assieme a Marc Slonim, ho preparato la traduzione di un brano dell’«Armata a cavallo» ha l’aspetto di frate e di sottufficiale di cavalleria. Basso, tarchiato, testa ovale, sorriso d’uomo che crede solo a se stesso.

«L’Armata a cavallo» ha toccato in Russia le 100.000 copie. Pure festeggiato è il poeta romeno Pilliat, uomo che s’occupa anche di politica, ma di cui più di tre quarti dei convenuti ignorano l’opera. Ma la cortesia è la parola d’ordine di Parigi.

Gli invitati cominciano ad arrivare. Crèmieux presenta. I nomi vengono appena afferrati. Sono suoni a cui bisogna rivolgere la più grande attenzione. Perchè questo signore modesto e insignificante potrebbe essere o Jules Romain, o Jvan Goll o Paulhan. Da lontano questi nomi e le loro opere numerate, costose e raffinate, fanno pensare a magiche figure d’eccezionali aspetti; invece sono tutte persone alla buona che come s’incontrano tra loro si preoccupano intensamente di scambiarsi i loro indirizzi e di fissarsi degli appuntamenti. Tra gli scrittori francesi pare che ci siano buoni e cordiali rapporti. Si ha l’impressione d’una organizzazione di difesa contro le altre organizzazioni sociali. Il letterato francese è veramente un uomo di mestiere. Le voci si incrociano e crescono.

La signora Crémieux giunge, fiera del suo forte e delizioso estro mediterraneo, in aiuto a suo marito. Presenta a Italo Svevo i giovani scrittori, infonde la cordialità nei i nuovi sopraggiunti, crea piccoli circoli, li anima d’una conversazione, poi passa ad altri porta il suo sorriso e la vivacità di un suo giudizio. Spesso parla in italiano, un italiano romano; allude alla sua origine corsa e aggiunge con orgoglio: «Pirandello mi ha detto: noi siamo isole».

Italo Svevo e signora

Italo Svevo, in piedi, piega in ascolto la sua grande testa arguta e bonaria, sorride e fuma la sua ultima sigaretta, perché ha trovato un nuovo pretesto per imporsi di non fumare più: «Il successo parigino». Ma già si prevedono altri successi, quello inglese e quello tedesco, e allora il proponimento non diverrà esecutivo.

La sua signora lo sa, e sorride. La coscienza di Zeno, è la coscienza di Svevo. Egli si trova incatenato in una conversazione in francese, molte parole gli vengono tradotte dalla sua signora, arriva a comunicare l’arguzia, arguzia veneto-triestina; si ride, egli ne approfitta per liberarsi dal cerchio degli ammiratori e viene da me per riposarsi in una conversazione in veneziano. Come è nostro, intimamente nostro. Nostro come spirito, nostro come stile. La futura generazione degli scrittori italiani, per giungere a costruzioni compatte dovrà rivolgersi alla sua opera se vorrà trovare un aiuto. Mi piace pensarlo come un Saint-Simon in raffronto a Stendhal e a Balzac. I futuri Stendhal dell’imminente secolo d’oro italiano (anche Leon Daudet ieri in un articolo capitale era convinto di tale prossimo primato) troveranno in «Coscienza di Zeno» le linee indicatrici per le grandi forme. La folla è tutto un brusio d’api.
Ma uno è entrato, diverso da tutti. Alto, magro, grigio, elegante. Una testa che è un gioiello, guarda come gli fosse faticoso discernere. Scorgo una linea della fronte confondibile. E’ la stessa della fotografie di Joyce, ma è più magro e pare non abbia alcun male agli occhi. La fronte nella parte alta è leggermente prominente, come una volontà di gettarsi contro i pregiudizi. E’ lui. La signora Cremieux mi presenta. Vedo il suo occhio sinistro azzurrino, la pupilla è disfatta come un tocco di colore disciolto nell’acque. Il volto è semplice nelle linee, c’è una perfezione geometrica che impressiona. Egli ha un vivo piacere di parlare in italiano, la lingua che ha parlato per dodici anni e che è la lingua ufficiale della sua famiglia. Mi chiede dell’Italia come d’una cosa lontana, abbandonata; tutta la sua giornata e assorbita nel lavoro fino alle nove di sera. Mi domanda dei suoi amici, di Linati che vorrebbe vedere. La piccola bocca sottile è incoronata d’un leggero argento. La conversazione si arresta perché la minestra è in tavola. Il mio posto è vicino a quello della sua signora. Anche ella è irlandese, è felice di parlare italiano; il suo accento è triestino, e mi parla della sua famiglia, di suo marito, semplicemente. Pare più orgogliosa della gloria dei figli, uno forse diverrà un ottimo baritono e la figlia una danzatrice. Joyce impara il russo ascoltando il fonografo nelle conversazioni in questa lingua. Dopo aver lavorato al nuovo libro fino a tardi escono a mangiare in un restaurant di Montparnasse. Dice che la loro abitazione è in un quartiere comodo, vicino ai grandi giardini dell’Ecole Militaire. Le vivande si susseguono, si parla della cucina francese; ella rimpiange la cucina italiana.

Si parla dei pesci dell’Adriatico. Oh le seppie! Oh, le sardine! Oh gli scampi! Joyce va matto per il branzino, e poi gli piacciono tutti i nostri dolciumi natalizi, la mostarda e il torrone di Cremona e il panettone di Milano. Quando viene Natale egli esce a cercare di queste robe, ma non ne trova di autentiche. Rivedo Bloom. Ci viene servita un’insalata, ma distratto dalla conversazione non mi accorgo di che sia fatta, non la trovo salata a sufficienza. La signora mi avverte che assieme alle foglie del radicchio, ci sono fette di banana e noci. «Ah! sono sicura che domani mio marito vorrà che gliela faccia». Rivedo Bloom! Discorso d’uno dei convenuti seduto al centro. Presentazione ed elogio dei festeggiali. Applausi. Accendiamo le garette (Svevo riprende a fumare) si passa a prendere il caffè nella biblioteca. La conversazione con Joyce è ripresa. Egli stava seduto a tavola vicino alla signora Svevo. La signora Svevo mi dice che ha parlato con Mister Joyce, ricordando il buon pesce di Trieste. «Anche noi abbiamo parlato di questo», dice la siguora Joyce. Joyce, sottile e ironico, commenta mascherandosi da borghese di qualche anno fa; «Telepatia! Telepatia! mi piacciono i branzini, i calamaretti mi fanno invece un effetto di caucciù!» Ma ora si parla di acque, e di fiumi. Gli descrivo i fiumi del mio paese, egli ne vuol sapere i nomi, s’interessa al colore del Sile e a quello del Cagnan, che non ha mai inteso nominare, e perchè non siano da lui ritenuti del tutto oscuri gli riferisco che Dante li ha nominati, e appunto con esatta conoscenza del loro colore «Dove Sile a Cagnan s’accompagna…»

Egli pensa che Dante dev’essere stato anche a Trieste perché dice «Suso e giuso». La signora Svevo rettifica: «No, a Trieste si dice solo suso, ma non giuso».

Italo Svevo con la moglie Livia e la figlia Letizia (1912 ca)

E allora la sottile bocca incoronata d’argento dice: «Già, perché i triestini sono ottimisti». Ma egli ora parla di acque secondo la sua interpretazione: «Dicono che io ho immortalato Svevo, ma io ho immortalato anche le chiome della signora Svevo. Erano chiome lunghe e rosse. Mia figlia che le vedeva sciolte me ne parlava. Vicino a Dublino vi è un fiume che attraversa molte tintorie e le sue acque sono rossastre come quel tavolo; allora mi è piaciuto di parlare di queste due cose che si somigliano nel libro che sto scrivendo. Una signora avrà queste chiome, che sono le chiome della signora Svevo». La signora Svevo alza le braccia e si accomoda i capelli; «Ora me li soli tagliati, mio marito non voleva» La coscienza di Zeno, si incrocia con il Proteo. Il brusio attorno è assordante. La pelle leggera del volto di Joyce è tutta rossa, accesa per il caldo: si ha l’impressione d’un liquido dove si sia sollevato il deposito dal fondo per essere stato scosso. Mi si vuol presentare a qualcuno, non posso rifiutare. Era così riposante e delizioso questo concreto conversare su cose da nulla. Vicino a Joyce si sta bene come accanto al mare quando è deserto è l’onda è breve e pure tutto rimane indimenticabile. Attorno, tutti si scambiano indirizzi, elogi commossi e commoventi, una donnetta franco-cinese aspetta di arricchire coi suoi romanzi per andar a viaggiar sul dorso degli elefanti, perché detesta il mètro e il taxi. Il brusio è assordante come un fonografo stonato. Vedo Joyce ripartire, svelto e diritto come una freccia, quasi senza salutare nessuno. Ma la sua signora lo arresta sulla porta, e vuole che mi saluti. Vedo il suo occhio sinistro, cerulo, disfatto e indimenticabile come vedesse al di là di tutte le cose.

Giovanni Comisso

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