Sono stato invero fortunato. Avevo conosciuto un frate slavo che era venuto a curarsi la sciatica da uno specialista del mio paese. Gli tenevo compagnia tutte le sere in un caffè accogliente e mi divertivo a parlare con lui dell’isola dove era il suo convento. Era un’isola della Dalmazia, egli parlava assai bene l’italiano, anzi anche il veneto imparato nella sua giovinezza dai pescatori chioggiotti che rifornivano di pesce il convento. Fu tale la rievocazione di quell’isola che avevo visitato durante il mio errabondaggio per l’Adriatico coi velieri di Chioggia che decisi di accettare l’invito di essere ospitato nel suo convento durante l’estate. Avrei pagato una modestissima pensione e mi sarei divertito a consultare la biblioteca che mi disse ricca di palinsesti su pergamena che certamente dovevano provenire dalla Biblioteca di Diocleziano in Spalato. La cura della sciatica era stata efficace ed egli partendo volle che gli assicurassi di andarlo a trovare anche perché mi avrebbe offerto un vino moscato della vigna del convento così denso che si sarebbe potuto tagliare col coltello.
Così feci. Ebbi una specie di cella dalla quale vedevo il mare che da quella parte è assolutamente azzurro e tutte le piccole isole di roccia che affiorano come pietre preziose. Subito la mattina dopo passai alla consultazione dei palinsesti che erano in ottime condizioni e in pochi giorni avevo già preso dimestichezza nel leggere i due testi quasi sovrapposti dei quali uno era l’originario antico e l’altro di epoca più recente, entrambi in latino, l’uno di argomento pagano e l’altro cristiano. Uno di questi palinsesti mi incuriosì particolarmente perché il testo originario era scritto a rovescio e pareva dovesse contenere qualcosa di misterioso. Ma servendomi di uno specchio mi fu facile leggere come se fosse stato scritto regolarmente. Erano dodici lunghe pergamene e ebbi la pazienza di trascrivere tutto. Si trattava di un lavoro teatrale che si riferiva all’epoca di Augusto, ma doveva essere stato scritto su quella pergamena molti secoli dopo. Non si accennava all’autore, né vi era una suddivisione in atti, ma in scene. Non vi era neanche il solito prologo e tanto meno il titolo. Da alcuni riferimenti si può arguire che le scene principali avvengono in una villa suburbana di una città della Campania forse Pompei. I personaggi alcuni sono veri, già appartenenti alla storia: Augusto, Mecenate e l’archiatra Antonio Musa, altri, come Lidia e i due coniugi novelli sono così vivi da risultare ugualmente veri. Dal tono dell’argomento viene quasi da supporre che l’autore potrebbe essere un amico di Orazio, se forse non è egli stesso, ma rimane sempre dubbioso che egli potesse rivolgere la sua satira verso Augusto e le idee generali dell’impero. Però si sa ben poco della natura dei potenti, certe volte essi si compiacciono di essere satireggiati, quando avvenga con intelligenza o almeno con buon senso. Non dissi nulla al frate della mia scoperta e ora ne darò un sunto ripromettendomi di dare l’intera opera tradotta per rappresentarla.
Augusto e Mecenate seduti sotto a una pergola nel palazzo imperiale di Roma conversano amabilmente mangiando pane e fichi. Augusto fa l’elogio di questo cibo povero e salutare e disprezza l’abitudine dilagante tra i ricchi del mangiare strabocchevole e lussuoso. Mecenate ne attribuisce la colpa alla gente etrusca, da cui discende per avere insegnato ai romani a banchettare stando distesi a letto così da invogliare al mangiare abbondante, sebbene gli etruschi fossero buongustai, ma non ingordi. Augusto gli chiede quale è la situazione morale dell’Italia. Dopo che Augusto aveva tanto fatto, e senza tenere conto dei vincoli familiari e d’amicizia, per dare austerità alla famiglia e onestà ai costumi, l’immoralità sembrava soffocata. Le famiglie accrescevano rapidamente di numero, anche la pace e il commercio, che si intensificava ogni giorno con l’estensione dell’impero, favorivano la creazione di un peculio che è una delle prime basi per la solidità della famiglia. Tutto questo dava a sperare che i grandi vuoti creati dalle guerre e dalle epidemie venissero presto colmati, ma un fatto strano si stava verificando e specialmente nelle regioni più prolifiche.
Da qualche tempo si verificava un fenomeno nuovo e quasi incredibile, molte donne sposate dimostravano una insopportabilità fisica per l’uomo, per il marito. Augusto vuole che si spieghi meglio e Mecenate lo informa che su cento matrimoni avvenuti nella Campania ben quarantacinque sono risultati infecondi per colpa della donna che ha rifiutato di soggiacere al marito. Mecenate spiega ancora che quando il marito invita la moglie a entrare nel venerio, questa dà in escandescenze come se si fosse trattato di andare al macello. Augusto pensa che possa dipendere dai mariti resi molli e incapaci di trattare la donna come si deve e vorrebbe infierire contro la prostituzione che snerva i giovani e contro tutti quegli ambienti intellettuali che imitano i costumi perversi della Grecia e dell’Asia. Mecenate riconferma che non si tratta di questo, ma proprio di una paura che la donna dimostra verso l’uomo e anche verso se stessa nelle sue possibilità femminili.
Augusto allora chiede che sia chiamato subito Musa, il suo medico particolare, per essere entrambi meglio illuminati sul fenomeno. Musa appena reduce da un viaggio nella Campania e nella Puglia conferma il fenomeno. Più volte è stato chiamato a osservare queste donne e ne ha studiato il male. Si tratta, secondo lui, di donne invasate, come prese dalle Furie, che odiano il soggiacere all’uomo, rimanerne pregne, partorire e allattare i figli. Tutti questi compiti femminili sono da esse ritenuti mostruosi e dentro di esse nessun istinto naturale le spinge a diventare donne effettive. Egli appunto ha ideato un metodo per rinsavirle e attende di poterlo applicare. Bisogna togliere in queste donne la paura per la loro condizione e sottoporle a visioni urtanti, che in forma violenta possano dare a loro il senso reale del compito della donna nella vita familiare. Musa dice esattamente che bisogna castigarle come bambine disubbidienti e quindi anche sculacciarle, nella pratica egli propone addirittura di fustigarle per scuoterle. Non crede che in questi casi possa essere utile la cura da lui introdotta per tante altre malattie, quella dei bagni freddi, in contrapposizione ai bagni caldi diventati di vasto impiego nelle terme artificiali e naturali. Inoltre annuncia di avere preparato un infuso di vino mischiato a certe erbe di grande forza eccitante per ridare l’istinto erotico a queste donne fredde e ricalcitranti. Se ad Augusto preme che queste donne si facciano amorose e diventino feconde egli è pronto a provare la sua cura. Augusto dice che vicino alle pendici del Vesuvio possiede una grande villa di cui non sa cosa farne, con bei vigneti attorno, in una posizione solitaria e la affida a Musa perché ne faccia un ospizio per la cura di queste donne. Musa obbietta che egli può dare tutte le istruzioni in modo preciso e inequivocabile, ma non può stare lontano da Roma e dal suo principe, la cui salute è legata a quella dell’impero. Avrebbe invece una donna molto adatta alla quale affidare la direzione dell’ospizio, una certa Lidia, matrona intraprendente, zelantissima, molto benefica, la moglie di un latifondista che vive a Miseno, terribilmente annoiata nella sua villa perché il marito, conoscendo i disordini di quelle spiagge non la lascia mai uscire. Augusto chiama un segretario e detta gli ordini per la villa e per la matrona Lidia.
Qui si chiude la prima parte, la seconda si svolge nella villa che già è stata adattata a ospizio. Musa spiega a Lidia come deve farsi la cura. Si informa se già sono state eseguite le modifiche alla villa. Tutto è stato eseguito: sono state sistemate una ventina di piccole stanze per accogliere le spose ribelli, la cucina è stata ingrandita, alle pareti della grande sala per la cura sono stati dipinti, secondo i suoi ordini, i vari episodi che per Lidia riescono del tutto incomprensibili. Musa allora ne fa la spiegazione indicandoglieli forse da una finestrella interna. Il primo dipinto bisogna somministrare alla sposa alcune polpette del suo infuse di vino. Occorre che tutte le inservienti siano donne gravide che portino con serenità il peso della gravidanza per fare capire all’ammalata come sia un fatto dei più naturali che la donna debba arrotondarsi nel ventre. Nel secondo episodio si fanno vedere alcune donne dal petto turgido che allattano piccoli cani e tanto questi che quelle appaiono felici. Musa soggiunge che se si facesse vedere che allattano dei bambini il fatto non darebbe turbamento nella mente fredda della donna, ma questa promiscuità con gli animali crea in lei un urto memorabile e inquietante nella sua realizzazione estrema. Poi spiega che il terzo dipinto mostra per questo come si debba fare capire la differenza che passa tra il volto di un bel giovane e quello di un vecchio, per questo bisogna servirsi di uno specchio concavo che ingrandisca l’immagine dei due volti, proiettata alternativamente: il volto del giovane sarà reale e quello del vecchio sarà reso ancora più disgustoso da una maschera mostruosa.
Gli episodi devono sempre essere accompagnati da una musica elettrizzante forte di un crescendo spasmodico. Infine un altro dipinto rivela la felice ebrezza di Bacco e di Arianna per indurre l’ammalata a scoprire la cesta mistica che cela il simulacro ingrandito di un fallo. Naturalmente, dice Musa, l’ammalata intuisce che in questo momento ella dovrà vedere quello di cui sempre ha avuto orrore e si rifiuterà, allora bisogna fare intervenire un inserviente bellissimo munito di frusta e deve frustarla inesorabilmente fino a obbligarla alla visione conclusiva e risanatrice. Lidia propone che per rendere meno atroce questa prova si dia l’incarico della fustigazione a una donna, ma Musa fa osservare che le donne sarebbero più crudeli degli uomini, certo avverte che come tipo d uomo bisogna cercare di scegliere un tipo non troppo maschio, ma qualcosa di incerto, in modo da non creare una reazione maggiore verso il sesso maschile che invece deve diventare familiare alla donna ammalata. Finita la spiegazione dei vari dipinti, Lidia offre a Musa la sfilata del personale: delle inservienti gravide, dei giovani belli con le maschere di vecchio che provano a sovrapporsele al volto, dei giovani frustatori, delle donne dal petto esorbitante e infine dei musici che suonano i ritmi da eseguire durante la cura. Ogni comparsa fa mostra del proprio compito su ordine di Lidia, e così finisce la seconda parte.
La terza parte travolge completamente la narrazione nel comico. Arriva alla villa un giovane sposo seguito dalla moglie, quasi del tutto coperta da un grande mantello bianco, che si muove colla rigidezza di una statua e vengono accolti da Lidia con tutto l’entusiasmo di ricevere i primi ospiti. Lo sposo è ciarliero tra un’impetuosità meridionale e una timidezza paesana che sa però subito vincere. Espone la sua situazione, è ardentissimo d’amore, suo padre d’accordo con quello della ragazza gli ha combinato il matrimonio. Quando l’ha vista gli è piaciuta, anch’ella aveva sorriso, volle che si facessero subito le nozze tanto era impaziente, ma quando nella notte, accompagnato dai grandi canti degli amici, prese la sua donna per portarla nella stanza nuziale, quella gli cadde svenuta per terra irrigidendosi in tutto il corpo. Così fu per tutte le altre sere e se non sveniva urlava spaventata quando egli tentava di baciarla e di stringerla tra le sue braccia. La sua esasperazione è estrema, si è mantenuto casto fino alle nozze, non credeva che le donne potessero avere paura di fare all’amore, ma egli teme che sua moglie abbia paura di lui perché odioso. Lidia interviene a confortarlo che non è il suo volto la causa del fenomeno, egli è bellissimo. Il giovane si riconforta, dice che sono stati da tutte le maghe della Campania, che hanno fatto bere alla sua donna filtri e masticare radici, ma è sempre come prima. Infine il banditore del suo villaggio aveva annunziato l’ordine dell’imperatore di portare le mogli ribelli in quella villa per curarle ed era subito partito. Lidia lo rassicura che la cura sarà efficace, perché studiata dal grande Musa, accarezza la moglie statuaria, la prende in consegna subito, e verrà fatto il possibile per guarirla, non dovrà temere di nulla, anzi se vorrà anch’egli resterà nella villa fino alla fine della cura che sarà breve. Lo sposo accetta, contento anche di non pagare nulla. La sposa viene affidata alle inservienti gravide che le destano paura e stupore nello stesso tempo e viene introdotta nella sala della cura. Lidia rimane sola col giovane sposo il quale è preoccupato per la sorte della moglie e vorrebbe vedere come viene fatta la cura. Lidia gli spiega che non è possibile penetrare nei misteri presieduti dal dio Bacco e dalla sua Arianna, deve stare buono e avere pazienza. Il giovane dice che la sua pazienza sta per scoppiare come una vescica, non ne può più e se per quella notte non potrà avere tra le sue braccia sua moglie, non sa quello che la disperazione gli potrà fare. Lidia lo tranquillizza affettuosa, amabile, seducente. Dalla sala della cura si sentono le musiche, poi le urla della sposa che viene fustigata.
Lo sposo che già cedeva alle lusinghe di Lidia, ne viene turbato, ma ella lo calma e gli dice che non è la sua sposa che urla, ma è Arianna che urla dalla gioia tra le braccia di Bacco. La sua sposa sarà presto guarita, desiderosa di essere sua. Dalla sala viene un sovraintendente grasso come un sileno, lo sposo crede sia Bacco e si butta a terra per adorarlo, ma questi annuncia a Lidia che la cura non ha avuto effetto e che la sposa è più stranita di prima. Lidia ordina che la cura venga subito ripetuta e riprende per mano il giovane sposo avvilito che quasi piagnucola il suo sconforto, la sua disperazione, la sua impazienza, portandolo a un divano dove si distendono entrambi.
Viene la musica dalla sala, Lidia canta un inno d’amore, il giovane sposo balbetta e l’abbraccia, alla musica succede lo schioccare della frusta. Subito dopo la porta si apre e appare la sposa seguita dalle inservienti e dal frustatore. Ella si accorge che il suo sposo è tra le braccia di Lidia e allora sciogliendosi dalla rigidezza statuaria si precipita su di lui gridando: Sei mio, sei mio, solo mio. Scaccia Lidia dal divano e gli si distende al suo fianco.
Dopo questa scena, ve n’è un’altra brevissima, come un epilogo.
Siamo ancora nel palazzo imperiale Augusto e Mecenate stanno mangiando pane e fichi. Musa legge a loro il rapporto di Lidia sul primo risultato della cura da lui ideata. L’ammalata è diventata una sposa amorosa, da una statua che era si è trasformata in un pagliaio in fiamme, sarà di certo una moglie feconda per la salute dell’impero, ma ella si permette di consigliare a Musa di aggiungere alla cura anche l’episodio di fare vedere alla moglie stranita il marito tra le braccia di un’altra donna. Augusto soggiunge che adesso le donne pretendono di saperne più dei medici e Musa conclude che hanno ragione di pretenderlo quando si tratta di curare l’amore. Tutti acclamano alla sposa liberata dalle furie, sorgente d’acqua liberata dalle scorie per irrigare e rendere popolato l’impero.
Il latino del testo è del periodo migliore e come titolo se si deve darne uno mi pare che sia calzante mettervi questo: “La villa dei misteri“.
Giovanni Comisso
Pubblicato su Il Mondo il 10 novembre del 1959 alle pagine 5 e 6.
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale.
Nota: Anche se non abbiamo certezza riteniamo che l’articolo sia stato precedentemente pubblicato con il titolo “Le mystère de la Villa des mystères” nel numero 37 della rivista mensile “Arcadie” nell’Aprile 1957 alle pagine 22-26.
Immagine in evidenza: “Fresco from the Sala di Grande Dipinto, Scenes in the Villa de Misteri (Pompeii)” – Fonte: Wikipedia